In quei tempi ero soldato e mi trovavo
a El A., in Cirenaica, a causa della guerra. Ero sempre solo. Vivevo
su un furgone rimorchio sul quale era installata una stazione
radiotrasmittente che era mio compito mantenere in funzione. Ero
accampato a circa un chilometro dal comando. In quei paraggi c’erano
alcune zeribe arabe e molti ragazzi; per far passare il tempo
incominciai a parlare qualche volta con gli arabetti. Tra loro c’era
anche Belgàsem ben Alì; era il più intelligente di tutti e anche
il più simpatico, nonostante la sua bruttezza veramente eccezionale
e le sue continue richieste di sigarette.
Un
giorno gli proposi di rimanere con me a lavorare. Mi avrebbe tenuto
in ordine il furgone, mi sarebbe andato a prendere da mangiare alle
cucine del comando e io gli avrei dato cinque sigarette al giorno e
parte della mia razione di rancio. Belgàsem accettò: volle
immediatamente un anticipo di dieci sigarette e si mise ad
abballinare la mia cuccetta. Poi mi andò a prendere il rancio, si
trovò un barattolo per metterci la sua parte e mangiò con me.
Passarono
così i giorni. Belgàsem veniva al carro di buon mattino e se ne
andava solamente quando era buio. Faceva ogni cosa con cura senza che
io dovessi ricordargliela. Quando non aveva niente da fare, ci
mettevamo a chiacchierare. Parlavamo molto io e Belgàsem, lui
specialmente era molto loquace. A volte, nel suo italiano un po’
stentato, mi parlava della sua famiglia. Diceva che suo padre aveva
due mogli nella zeriba, una, vecchia, che era sua madre, e l’altra
giovane, arrivata da poco.
Oppure mi parlava dei funerali
musulmani, dei pianti che la gente andava a fare dietro compenso
nella casa del morto, e delle tombe dei santoni, che chiamava
marabùt. Quando Belgàsem toccava l’argomento dei marabùt
diventava triste e si commuoveva fin quasi al pianto; ciononostante
ne parlava spesso. Mi spiegava che le tombe dei santoni si
distinguevano dalle altre per una piccola bandiera piantata sul
cumulo di sabbia, fatta con uno straccio bianco e uno stecco, e mi
raccontava dell’usanza di portarvi dei cibi in determinate
ricorrenze. Io ne ridevo: gli dicevo che era una cosa stupida portare
da mangiare nei cimiteri, perché i cibi sarebbero stati mangiati dai
cani e non dal marabùt.. Ma Belgàsem replicava che nei cani
potevano esserci le anime dei santoni.
Spesso voleva che gli parlassi delle
città italiane. Teneva sempre tra le mani una vecchia cartolina che
gli avevo regalata e che raffigurava un veduta notturna di una piazza
di Roma illuminata a giorno. «Parlami delle luci – diceva –
parlami delle luci». «Guarda la cartolina – gli rispondevo – lì
c’è tutto». Ma lui non si accontentava. Voleva che gli
raccontassi tante altre cose sulle luci delle strade e mi stava ad
ascoltare abbandonando a se stesso il grosso labbro inferiore, che
gli ricadeva penzoloni.
Dopo circa due mesi che Belgàsem era
con me, ricevetti l’ordine di partire per l’interno, nell’oasi
di G. Quando Belgàsem lo seppe, si accoccolò a terra e si mise a
piangere. Poi si alzò risoluto e disse che sarebbe venuto con me.
Gli feci osservare che era una cosa impossibile perché lui doveva
rimanere nella zeriba assieme ai suoi genitori; ma non volle sentire
ragioni. Mi indicò il pavimento del carro e disse che avrebbe
dormito lì; poi corse a casa ad avvertire i suoi e tornò poco dopo
ansimante e felice con il permesso di partire.
Il carro sobbalzò per quasi tre
giorni sulla pista del deserto e finalmente arrivammo a G. Era una
piccola oasi con un migliaio di palme, alcune sorgenti d’acqua e
un fortino. Il mio carro venne trainato a circa quattro chilometri
dal presidio, in pieno deserto. Lì mi accampai, stesi il cavo di
collegamento con il fortino, alzai l’antenna e incominciai il
servizio.
I giorni passavano monotoni,
esasperanti. Faceva un caldo enorme in quel furgone e, a volte,
quando s’alzava il ghibli, pareva quasi di non poter
respirare. Ogni settimana veniva l’autobotte a rifornirci d’acqua
e due volte al giorno Belgàsem andava al fortino a prendere il
rancio. Era sempre del solito umore, Belgàsem. Quella vita, più che
annoiarlo, lo divertiva. Quando parlava della sua zeriba non
dimostrava affatto di sentirne nostalgia. Io gli chiedevo se non gli
sembrasse strano stare là in mezzo, ma lui rispondeva sempre di no.
Mi ripeteva: «Parlami delle luci» e mentre mi ascoltava teneva in
mano la vecchia cartolina. Quando veniva la sera ci mettevamo a
fumare seduti contro una ruota del carro e guardavamo in direzione
dell’oasi, ma non si vedeva niente perché c’erano davanti alte
dune. A notte, prima di addormentarci, continuavamo a parlare fino a
tardi. Erano quasi sempre i soliti discorsi che facevamo: Belgàsem,
appena poteva, parlava delle bandierine, delle tombe del marabùt e
del cibo che veniva portato ai morti. Una sera mi disse che gli
sarebbe piaciuto diventare un santone per avere da mangiare anche
dopo morto.
Un giorno – erano quasi tre mesi che
eravamo a G. – mi telefonarono dal fortino avvertendomi di
prepararmi per la partenza perché una grossa colonna inglese stava
puntando sul presidio e bisognava ritirarsi. Aggiunsero che quanto
prima sarebbero venuti con un autocarro per agganciare il rimorchio
e portarlo via. Allora ritirai il cavo telefonico, smontai l’antenna
ed aspettai. Venne la notte, poi tornò il giorno senza che nessuno
fosse venuto a rimorchiarmi.
Verso mezzogiorno, come al solito,
mandai Belgàsem a prendere il rancio. Ritornò molto tardi; aveva i
gamellini pieni di una strana e insolita pappa bianca e, nella
bisaccia, delle gallette di un formato più piccolo del consueto.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Belgàsem disse: «Nel
fortino ci sono gli inglesi; ho detto che avevo fame e mi hanno dato
da mangiare».
Mi misi a sedere di peso e pensai che
ormai era finita. Belgàsem mangiando disse che la roba era buona e
che sarebbe tornato a prenderne anche il giorno dopo. Io non parlavo;
lo guardavo, era sereno e calmo come sempre. Pensavo che mi avrebbero
fatto prigioniero, che non l’avrei più visto, che non gli avrei
mai più parlato delle luci. Avevo una gran voglia di piangere.
L’indomani Balgàsem ritornò al fortino e ancora riportò il
rancio. Questo si ripeté per una settimana; io tiravo avanti così,
senza decidermi a costituirmi. Poi, un mattino, quando mi alzai,
trovai il ragazzo sveglio: al suo fianco, nel carro, c’erano una
cassetta di scatolette di carne e una stagna d’acqua. Senza
guardarmi in viso, Belgàsem disse: «Questa notte sono andato a
rubare questa roba per il viaggio perché ho voglia di ritornare a
casa a vedere le bandierine sulle tombe dei marabùt; adesso possiamo
andar via».
Io non seppi dir nulla; mi legai alle
spalle la stagna e la cassetta e partimmo in direzione nord. Avevamo
davanti a noi quasi trecento chilometri di deserto. Camminammo per
giorni e giorni. I piedi affondavano nella sabbia e l’acqua
diventava bollente sulle spalle. Di notte ci gettavamo sfiniti a
terra, mangiavamo un po’ di carne e dormivamo qualche ora; poi,
ancor prima che s’alzasse il sole, riprendevamo il cammino.
Belgàsem non diceva mai d’essere stanco. Ogni tanto rompeva i
lunghi silenzi pregandomi di parlare delle città e delle luci che le
illuminavano di notte. Io parlavo, parlavo e guardavo davanti a me,
verso il nord. Ormai dovevano restare ancora poche ore di cammino,
poi avremmo raggiunto la strada litoranea e saremmo stati salvi.
Ma all’improvviso Belgàsem disse
che si sentiva male e si fermò. Io lo guardai in faccia e mi accorsi
che sulla pelle aveva delle piccole eruzioni rosse. Gli posai una
mano sulla fronte e sentii che scottava. Allora, per la prima volta
da quand’ero in guerra, mi prese la paura; una paura violenta che
mi faceva tremare le gambe. Cercai di dire a me stesso e a lui che
non era niente, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quei punti
rossi che Belgàsem aveva sulla faccia. Pensavo: adesso mi muore qui
in mezzo e io non posso far niente per salvarlo, non posso far
niente. Belgàsem si passò una mano davanti agli occhi e cadde di
schianto sulla sabbia. Aveva perduto conoscenza. A tratti era
percorso da brividi e batteva i denti. Io gli passavo un fazzoletto
bagnato sulle labbra e gli facevo ombra con il mio corpo. Quando fu
notte, col fresco, riprese i sensi. Aveva sempre la febbre altissima.
Provai ad alzarlo, ma non si reggeva in piedi. Allora abbandonai
l’acqua e le scatolette e lo caricai sulle mie spalle.
Continuai il cammino così. Ogni tanto
mi fermavo per assestare il suo corpo rilassato e cascante, poi
riprendevo a camminare. Sentivo che le mie forze a poco a poco se ne
andavano, ma volevo assolutamente arrivare sulla strada.
Ci arrivammo all’alba; ero sfinito.
Belgàsem vaneggiava, parlava in arabo e io non capivo che cosa
dicesse. Passò un camion dei nostri che andava verso El A. Vi
caricai il ragazzo e un’ora dopo eravamo alla sua zeriba. Andai al
comando, trovai un medico e lo accompagnai da Belgàsem. Ma non c’era
più niente da fare: si trattava di tifo esantematico. Il medico mi
costrinse a venir via per evitare il contagio. Belgàsem morì nel
pomeriggio.
Quando fu sera mi avvicinai, non
visto, alla zeriba. Si udivano i pianti della gente che era andata a
piangere dietro compenso. Mi sedetti sotto una palma e pensai alle
luci delle nostre città; non ero capace di pensare ad altro.
Il giorno dopo fecero i funerali.
Quando la gente lasciò il cimitero andai sulla tomba di Belgàsem e
piantai nella sabbia una piccola bandiera fatta con uno stecco e uno
straccio bianco. E per tutto il tempo che rimasi presso il comando di
El A. portai, di notte, parte del mio rancio sulla sua tomba.
C’erano sempre dei cani nel cimitero
e il rancio lo mangiavano loro. Ma nei cani poteva esserci l’anima
di Belgàsem ben Alì.