Novantadue anni! A giudicare dalla
carta d’identità si direbbe che il cav. Raimondo Gallotta è
vecchio, ma a vederlo questo termine lo si dimentica. È un uomo alto
un metro e ottanta, diritto e magro, la pelle solcata da rughe
finissime che non guastano l’armonia del volto, il capo coperto da
una lanugine bianca. Basta che parli e che si muova perché chi gli
sta vicino non pensi più all’età. Ha una voce vibrante, sicura,
il gesto nervoso; l’unico movimento impacciato è quello che fa
alzandosi dalla poltrona: deve spingersi su con le mani sui braccioli
e lo fa con evidente fatica, poi, una volta in piedi, si sposta con
passo franco e svelto.
Dirige la fabbrica di saponi e affini
da lui fondata cinquanta anni fa. All’età di 82 anni decise di
lasciare ogni attività, di andare in pensione. Convocò il figlio,
Martino, che allora aveva 40 anni e i direttori dei reparti
produzione e commerciale. La fabbrica allora dava lavoro a 38
dipendenti. Disse all’incirca: «Io mi ritiro, affido tutto a mio
figlio. Mi riservo solo un piccolo ufficio per venirmi a sedere qui
quando non ho voglia di andare in giro». Fu festeggiato, ebbe ogni
possibile onore. Andò a fare un viaggetto all’estero. Al ritorno
convocò il figlio e i direttori. Disse: «Sono stato a vedere altre
fabbriche, in Francia e in Germania. Noi siamo piuttosto indietro,
bisogna che ci svegliamo se vogliamo far fronte alla concorrenza».
Quello stesso giorno dette
disposizioni importantissime: ordinò a una fabbrica tedesca due
macchinari di alta automazione e il progetto di un nuovo capannone.
Per qualche giorno ancora si recò nel suo ufficio ad ora avanzata,
poi, nel giro di una settimana, riprese il suo solito orario, le otto
meno un quarto, cioè prima che entrassero tutti i lavoratori. Da
allora il titolare dell’azienda Gallotta è ufficialmente Martino,
il figlio, ma in pratica chi comanda è lui, solo lui, il vecchio
cavaliere Raimondo: c’è la sola differenza che il padre occupa un
uffiicio che è poco più di uno sgabuzzino, mentre il figlio sta
pomposamente seduto alla scrivania della sala più bella. Chi decide
è sempre il vecchio, di testa sua, senza chiedere nulla a nessuno.
* * *
L’insegna, fuori, è ancora quella
che fece fare suo nonno: di lamiera con la scritta «Mercerie», in
grigio su fondo marrone. La vernice qua e là è saltata via e la
ruggine ha preso il suo posto, la seconda “r” è quasi tutta
scomparsa. Dentro, gli scaffali sono di legno nero, come il banco che
offre, sul piano, la vista di molti forellini da tarlo e parecchi
graffi. Le scatole di cartone, sugli scaffali, sono consunte; ognuna
porta una targhetta scritta con calligrafia manuale in corsivo:
«elastici», «bottoni», «filo di Scozia».
Dietro il banco c’è lui, Ottavio.
Basso, un po’ pingue, gli occhi grandi, acquosi, i baffi che
tendono al bianco. Ha 49 anni. «Ci deve essere un errore
all’anagrafe – gli dice qualche volta Argia, sua moglie, con aria
tra il serio e lo scherzoso – io direi che di anni ne hai di più».
Sua moglie ne ha appena 38 e fa la sarta, in casa. È brava, anche
per la tavola: quando lui rientra, la sera, gli fa trovare pronti
manicaretti gustosi, sempre variati. Ma Ottavio è difficile,
talvolta addirittura non tocca cibo; non sono rare le obiezioni come:
«lo spezzatino mi può dare fitte al fegato», «no, stasera non mi
vanno gli asparagi, la maionese ho paura che mi faccia male
all’intestino», «che bello quell’arrosto di maiale, ma e se poi
mi fa venire l’infarto?».
Spesso alla sera la moglie gli propone
di andar fuori, al cinema o in visita ad amici. «Stiamo sempre qui
isolati come se non conoscessimo nessuno e invece no, io ne ho tanti
che vorrei frequentare» dice lei. Lui ne ha sempre una per non
accontentarla: «Proprio stasera avevo già pensato d’andar a letto
presto, andiamo poi un’altra volta». E l’indomani c’è un
nuovo rinvio: per un acciacco improvviso o perché durante il giorno
si è venduto poco. Questa degli affari è un’altra lamentela
frequente: «tempi magri» oppure: «speriamo che le vendite vadano
meglio».
Ormai la moglie non gli pone quasi più
domande, ha capito che le cose proprio non cambiano. Anche a un
figlio, vecchia aspirazione, non spera più. Tra l’alro, la sera,
quello dell’andata a letto è un momento in cui l’atmosfera, fra
le quattro pareti della stanza, è carica di un miscuglio di speranze
e angosce, timori e rabbie. Ma possibile, pensa lei, che Ottavio
non si ricordi mai che esiste anche il sesso? A rammentarglielo è
facile sentirsi dire «stasera non ne ho voglia». Se si potesse
sapere dove si può trovare questa voglia, Argia gliene
raccoglierebbe tanta e gliela porterebbe su un piatto d’argento,
anche a costo di comperarlo lei questo piatto, con un suo gruzzolo,
risparmio di brava sarta.