Al quinto piano una soffitta divisa da
una tramezza di legno e cartone che separa la cucina dalla camera da
letto. Quando piove fuori piove anche qui: una goccia sul tavolo, una
goccia sul cuscino, una goccia sul fornello a gas. Teresa colloca
pentolini nei vari punti per raccogliere l’acqua.
Ha già reclamato col proprietario di
casa, ma lui le ha risposto che prima di reclamare deve pagare
l’affitto regolarmente. In effetti è in debito di tre mesi. È
facile dire «pagare», ma se i soldi non ci sono come si fa?
Teresa si guadagna da vivere
dipingendo. Compone dei quadri ad olio – marine e paesaggi montani
– che fornisce ad un negozio il quale li smercia a poco prezzo, una
ventina di euro, con un filo di cornice. È evidente che a lei tocca
una cifra misera. E d’altra parte la sua pittura, sempre i soliti
tre o quattro soggetti, fa accapponare la pelle a chi se ne intende.
Anni fa, quando ci vedeva bene, Teresa
riusciva a fare anche un quadro al giorno; adesso è quasi cieca,
l’hanno operata due volte, senza successo. Vede poco e confuso,
ciononostante prova lo stesso a dipingere, ma con risultati a volte
disastrosi, il negoziante glieli respinge e li deve rifare.
Quando li accetta lo fa quasi sempre
per misericordia. Sì e no riesce a piazzarne tre o quattro al mese.
E non può fare altro perché si regge in piedi a fatica, a causa
delle vene varicose. Ha passato gli ottanta da un po’. Piange
spesso, e a lungo, nella sua solitudine.
Appeso al muro, tra le due finestrelle
della soffitta, c’è un quadretto con due fotografie: una donna
vestita da gran sera, con abito di pizzo fino ai piedi, e in un
succinto costume da ballerina, con lunghe piume sul capo, a corona.
Sopra, il titolo: «I trionfi di Resi». Resi era il suo diminutivo,
il nome d’arte. Teresa è stata più di sessanta anni fa un’artista
del varietà di grande nome. La chiamavano «La Venere delle follie»,
non perché ci fosse arte nelle sue esibizioni, ma perché sapeva far
impazzire le platee per la sensualità che metteva nella voce delle
sue canzoni e nelle mosse delle sue danze. Altra clamorosa variante
del suo nome d’arte era «l’odalisca azzurra», per una
interpretazione fatta con un vaporoso abito di quel colore. Gli
impresari teatrali italiani e parigini se la contendevano a cifre
sempre maggiori, i corteggiatori facevano pazzie per avere le sue
grazie. Una sera, a Parigi, alla fine dello spettacolo, ricevette tre
corbeilles di fiori ognuna delle quali era stata inviata da un
principe.
Convisse per alcuni anni con un attore,
poi altro tempo con un impresario, ma quest’ultimo stava con lei
soprattutto per sfruttare la sua ricchezza, che a poco a poco andò
estinguendosi, di pari passo con l’avanzare dei problemi nel lavoro
e nella salute. La malattia agli occhi fu grave e decisiva per il
tracollo. Già il primo intervento chirurgico non portò beneficio.
Lei tornò sul palcoscenico, ma già era un’ombra della Venere
autentica. I riflettori l'abbagliavano, ad ogni passo rischiava di
cadere. Doveva proprio lasciare il teatro, che le aveva dato tanto.
Anche l’impresario la lasciò: era venuto il tempo in cui avrebbe
dovuto aiutarla e invece si dimostrò uomo malvagio.
Resi tornò Teresa. Si ricordò che
prima di fare la ballerina era andata a scuola di pittura e riprese
in mano i pennelli. Bene. Era abbastanza brava e incominciò a fare e
a vendere, con discreto risultato. Ma la malattia degli occhi era di
nuovo minacciosa, i medici ritentarono un nuovo intervento, con
nessun risultato. Anzi, la malattia continuava ad avanzare come
sempre. Povera Teresa. Si sente vicina alla fine, ma se trova la
persona giusta che possa ascoltarla e capirla, si lascia ancora
andare ai ricordi, le emozioni delle grandi serate, il fragore degli
applausi, la commozione davanti alle grandi corbeilles. Ma non deve
perdersi in questi ricordi: tra poco pioverà e bisogna preparare i
tegamini per raccogliere le gocce che cadranno dal tetto.