domenica 31 luglio 2016

Vengo da Marte

Il disco atterrò nel pomeriggio di una domenica afosa e malinconica, sui prati da fieno di fronte alla mia casa. Sdraiato sull'erba dell'aia, mi stavo rodendo le unghie con rabbia perché avevo appena finito di litigare con mia moglie, in cucina, a causa del bambino che le aveva tutte vinte da lei e cresceva pieno di vizi. Non sentii assolutamente alcun rumore, vidi soltanto un luccichio riflesso e alza gli occhi sul campo. Il disco era enorme, alto come una casa alta, largo quanto cinque campi affiancati, con una calotta di sotto e una di sopra e il bordo esterno alto da terra come due piani. Mi alzai in piedi, stupito. Il mio istinto fu di gridare: «Maria, Maria», ma il risentimento che avevo contro mia moglie in quel momento mi soffocò le parole. Pensai allora a mia madre: mi sarebbe piaciuto che ella potesse vedere ciò che io vedevo; ma mia madre era in città, all'ospedale, e stava male.

Il luccichio del disco era tanto forte che il mio occhio ne era abbagliato; così mi sfuggirono tutte le manovre che gli esseri del disco fecero per uscire. Me li trovai improvvisamente davanti a una decina di metri. Erano in sette o otto, simili agli uomini, ma più armoniosi, bellissimi, tutti alti esattamente alla stessa misura, vestiti d'una specie di cellofàne opaco e aderente alla pelle, solo trasparente sul viso. Ero stupito, ma tuttavia capivo d'avere ancora la mente libera di pensare, di considerare, di ordinare a me stesso la fuga, se lo avessi voluto. Improvvisamente, quando quegli uomini erano a soli tre metri da me, sentii la mente vincolata a qualcosa e dovetti andare avanti, verso di loro. Mi accompagnarono sui prati da fieno, sotto il disco, poi mi fecero entrare, sempre in silenzio. Pochi attimi dopo eravamo già in alto; vedevo, attraverso lo stesso piano su cui posavo i piedi, il nero della terra; poi vidi da una parte e dall'altra della striscia di terra il chiaro dei mari. Mi resi conto che ormai ero lontano decine, forse centinaia di chilometri. Altre terre e altri mari vedevo sulle pareti sfuggenti della sfera che mi stava sotto, smisuratamente lontana.

Volsi gli occhi intorno a me e vidi una stanza senza dimensioni; intuivo che lo spazio del locale era assai limitato, ma non potevo capire dove fossero le pareti. Gli uomini in cellofàne che mi avevano accompagnato a bordo erano ancora intorno a me e mi guardavano. C'era silenzio perfetto, eppure io «sentivo» che loro dicevano che non mi avrebbero fatto del male: mi volevano solo mostrare agli abitanti del loro pianeta. Pensavano queste cose e io le capivo captando i loro pensieri. Questa ricezione, che avveniva automaticamente e senza fatica, mi dava calma e distensione.

Ero in piedi e mi pareva di essere sdraiato, senza peso: non sentivo lo sforzo di ogni muscolo per sostenere il corpo. A un tratto le pareti si aprirono in un'apertura senza contorni e noi, in gruppo, passammo oltre, entrammo in altre stanze, enormi, silenziose come la prima, popolate di altri uomini dei quali sentii i pensieri di meraviglia alla mia vista. Oggetti strani vagavano da soli a mezz'aria e andavano a posarsi sulle mani degli uomini per ripartirne ancora, leggeri e autonomi, quando gli uomini se ne erano serviti.

Pensai a Maria. Se l'avessi chiamata seguendo il mio primo impulso, avrebbe visto che ero finito sul disco. Così, invece, non sapeva niente e certo non sarebbe stata capace di immaginare il motivo della mia scomparsa. Pensai anche a mia madre, ma il mio pensiero fu tagliato a un tratto da altri pensieri che non erano miei ma degli esseri che mi stavano intorno, lo capivo bene. Erano pensieri a me diretti e che io ricevevo: mi mostravano, come su di un vastissimo schermo da televisione, il nuovo pianeta, visto in lontananza, poi più vicino, infine nei particolari fisici; lo schermo si ampliava sempre più, mi sembrava di entrarci dentro e allora sentivo la vita degli esseri che lo abitavano, mi pareva di essere perfetto, purificato, leggero.

* * *

All'arrivo trovai quello che già i miei ospiti mi avevano annunciato con il pensiero: un pianeta esattamente sferico, un suolo liscio e duro come l'acciaio levigato, un'atmosfera tersa, immune da perturbazioni, la natura e gli uomini estremamente vicini alla perfezione.

Gli uomini che mi avevano prelevato dall'aia della mia casa mi accompagnavano ora in visita al pianeta. Era un viaggio meraviglioso perché ovunque io guardassi vedevo cose piene di armonia, di bellezza, di arte sublime. Il pensiero aveva una forza poderosa: con esso gli uomini spostavano il loro corpo e ogni altro oggetto nello spazio con una rapidità strabiliante. Il pensiero era anche creatore di innovazioni che servivano ad accorciare la già tanto breve distanza della perfezione massima. E quando il pensieri si esauriva, gli uomini si autodissolvevano; dalla loro scomparsa nasceva un nuovo piccolo essere con rinnovata energia. Non esisteva dolore perché non c'erano sentimenti legati alle cose fisiche; c'era solamente uno stato di perenne gioia e di beatitudine che veniva dalla perfezione di tutte le cose.

Il tempo passava ma io non l'avvertivo. Trascinato dal pensiero dei miei ospiti giravo per il pianeta e gli uomini mi guardavano con i loro meravigliosi occhi dai quali scaturivano sguardi di dolcezza e di serenità. Ero affascinato da tutte quelle cose straordinarie, eppure di tanto in tanto pensavo a mia moglie, al mio bambino e a mia madre. Ci pensavo sempre più frequentemente. Provavo in me una tenerezza infinita per Maria e un rimorso profondo per quelle parole aspre che le avevo detto quel giorno durante la lite per Giancarlo; poi avevo in mente mia madre che era all'ospedale e forse peggiorava. Pensavo: «Ma perché questa gente non mi riporta sulla terra?» Allora i miei ospiti mi additavano, con il pensiero, ai loro simili: «Lui e tutti gli altri della terra sono ancora schiavi della parola e del dolore, dei sentimenti e della forza fisica. Hanno un pensiero incapace di agire”. Pensavano questo di me, ma non mi disprezzavano, mi amavano, piuttosto. «Resta» mi dicevano col pensiero; «se resti supererai in un attimo milioni di anni nel cammino della perfezione, il tuo pensiero diventerà forte della forza che c'è nell'universo intero, il tuo corpo si perfezionerà, la tua mente saprà creare cose meravigliose».

Ero commosso. Mi attraeva enormemente quell'atmosfera di perfezione, ma intanto mi pareva di vedere, al posto dell'armonioso paesaggio che mi circondava, l'aia di casa mia, verso sera, e Giancarlo che giocava col cane intorno ai cumuli di paglia. Poi i miei occhi entravano in cucina a cercare Maria. Maria era brutta, aveva due denti sporgenti e non sapeva educare nostro figlio, ma era buona e io le volevo bene. E volevo bene anche a mia madre che era all'ospedale. «Se tu scenderai sulla terra» pensavano gli uomini che mi accompagnavano, «andrai ad assistere alla morte di tua madre, alle malattie di tuo figlio, e ciò ti addolorerà». Era estremamente bello, guardare il paesaggio, sentirsi senza peso e immerso nella poesia, sapere che tutti avevano solo in sé della gioia, eppure io pensavo a mia madre, a Giancarlo e a Maria e mi sentivo già disposto a piangere la morte e le malattie perché sapevo che in seguito avrei raggiunto, a poco a poco, la tranquillità e la letizia. E la mia mi sembrava dovesse essere una letizia diversa da quella che si trovava ovunque, con facilità, su quel pianeta. Mi ricordai anche del giorno in cui era morto mio padre, dei pianti disperati che avevo fatto e della bontà che avevo sentito venirmi nell'anima via via che il dolore scemava.

Allora pensai intensamente al disco che mi aveva portato sul nuovo pianeta. Gli uomini che mi circondavano dissero col pensiero che avrebbero esaudito il mio desiderio e mi condussero per meravigliose distese di luci di ogni colore. A un tratto fummo davanti al disco, poi entrammo.

* * *

Atterrammo sugli stessi prati da fieno davanti a casa mia. Era una mattina piovigginosa e fredda. Trovai Maria nella stalla, intenta a dare fieno alle bestie. Mi guardò a lungo, stupefatta; poi, prima ancora di chiedermi dov'ero stato, mi disse che Giancarlo era a letto, con la polmonite, e che mia madre era morta.

Sentii le gambe vacillare e un desiderio violento di mettermi a piangere. E quando il pianto mi sgorgò improvviso, mi parve che mi purificasse dentro, che mi facesse bene.

Era una conquista, quel pianto, io lo sentivo; e sapevo che dopo avrei trovato la serenità.

Uscito su Stampa Sera di Lunedì 1 - Martedì 2 Novembre 1954