domenica 10 agosto 2014

Il prosciutto

Se stavo all’Ampergola d’inverno era perché erano i giorni delle vacanze di fine anno che si concludevano all’Epifania, quando sarei tornato nella casa di Modena, per riprendere la scuola. Quasi sempre in quel periodo c’era il rito della macellazione dei maiali, che allora trovavo di grande emozione e divertimento e che ora ricordo con raccapriccio e pena per le povere vittime. Per il nostro consumo annuale (eravamo in dieci, le famiglie di due fratelli, mio padre e mio zio, ma a tavola spesso sedeva qualche operaio in più oltre al mugnaio fisso) se ne uccidevano due o anche tre... In quei giorni, sempre di gran freddo, a volte di grandi nevicate, due macellatori venivano, prendevano possesso di un paio di stanze a pianterreno che trasformavano in laboratorio del quale si proclamavano sovrani, insindacabili esecutori di manipolazioni di carni e alchimie di spezie. Il rito s’apriva fuori, nell’aria gelida, con il crudele assalto del lungo coltello alla gola del suino, con il suo grugnito dapprima ignaro e dolce, poi aspro al primo sospetto per la troppa attenzione degli uomini intorno a lui. E infine il suo urlo straziante, l’ultimo sbuffo di fiato e il primo fiotto di sangue, prontamente raccolto in un bacile, perché sarebbe stato fritto, già per cena della sera stessa.

In una delle due stanze c’era un camino nel quale bolliva un pentolone d’acqua che spargeva intorno una nube di vapore, per scotennare e togliere le setole. E via via, lungo le ore della giornata, si susseguivano le varie operazioni di macellazione: le carni venivano suddivise, avevano ognuna la propria concia adeguata, andavano a formare le diverse specialità: strutto, lardo, salami, prosciutti, ciccioli. Il maiale che poche ore prima aveva vissuto il suo dramma finale nel grugnito dolce che sconfinava di colpo nell’urlo disperato, si tramutava nei tanti generi alimentari che avrebbero reso pingue e sapida per tutto l’anno la mensa familiare. Prodotti che avevano bisogno di maturazione, settimane, mesi, durante i quali modificavano la loro sostanza rendendola sempre più eccelsa per i palati che l’avrebbero degustata; e all’esterno, intanto, diffondevano una fragranza di delicata percezione.

Una volta finita l’opera dei conciatori, prosciutti, salami, cotechini venivano sospesi al soffitto in uno slargo del corridoio che portava alle camere da letto. Cosi, ogni volta che si percorreva questo tragitto, ci si immergeva nel diffuso sentore della carne sempre più promettente. In quel corridoio c’era anche il cestone del pane; pane casalingo, impastato una volta la settimana, all’alba, da tre o quattro congiunti e cotto nel nostro forno. Sicché, andando in camera e venendone, si percepiva, anche inconsapevolmente, la presenza dell’abbondanza, della prosperità, del cibo buono e genuino. Cibo che poi si trovava sulla tavola, ogni giorno, via via che i singoli pezzi avevano compiuto la loro stagionatura.