Se
stavo all’Ampergola d’inverno era perché erano i giorni delle
vacanze di fine anno che si concludevano all’Epifania, quando
sarei tornato nella casa di Modena, per riprendere la scuola. Quasi
sempre in quel periodo c’era il rito della macellazione dei maiali,
che allora trovavo di grande emozione e divertimento e che ora
ricordo con raccapriccio e pena per le povere vittime. Per il nostro
consumo annuale (eravamo in dieci, le famiglie di due fratelli, mio
padre e mio zio, ma a tavola spesso sedeva qualche operaio in più
oltre al mugnaio fisso) se ne uccidevano due o anche tre... In quei
giorni, sempre di gran freddo, a volte di grandi nevicate, due
macellatori venivano, prendevano possesso di un paio di stanze a
pianterreno che trasformavano in laboratorio del quale si
proclamavano sovrani, insindacabili esecutori di manipolazioni di
carni e alchimie di spezie. Il rito s’apriva fuori, nell’aria
gelida, con il crudele assalto del lungo coltello alla gola del
suino, con il suo grugnito dapprima ignaro e dolce, poi aspro al
primo sospetto per la troppa attenzione degli uomini intorno a lui. E
infine il suo urlo straziante, l’ultimo sbuffo di fiato e il primo
fiotto di sangue, prontamente raccolto in un bacile, perché sarebbe
stato fritto, già per cena della sera stessa.
In
una delle due stanze c’era un camino nel quale bolliva un
pentolone d’acqua che spargeva intorno una nube di vapore, per
scotennare e togliere le setole. E via via, lungo le ore della
giornata, si susseguivano le varie operazioni di macellazione: le
carni venivano suddivise, avevano ognuna la propria concia adeguata,
andavano a formare le diverse specialità: strutto, lardo, salami,
prosciutti, ciccioli. Il maiale che poche ore prima aveva vissuto il
suo dramma finale nel grugnito dolce che sconfinava di colpo
nell’urlo disperato, si tramutava nei tanti generi alimentari che
avrebbero reso pingue e sapida per tutto l’anno la mensa familiare. Prodotti che avevano bisogno di maturazione,
settimane, mesi, durante i quali modificavano la loro sostanza
rendendola sempre più eccelsa per i palati che l’avrebbero
degustata; e all’esterno, intanto, diffondevano una fragranza di
delicata percezione.
Una
volta finita l’opera dei conciatori, prosciutti, salami, cotechini
venivano sospesi al soffitto in uno slargo del corridoio che portava
alle camere da letto. Cosi, ogni volta che si percorreva questo
tragitto, ci si immergeva nel diffuso sentore della carne sempre più
promettente. In quel corridoio c’era anche il cestone del pane;
pane casalingo, impastato una volta la settimana, all’alba, da
tre o quattro congiunti e cotto nel nostro forno. Sicché, andando
in camera e venendone, si percepiva, anche inconsapevolmente, la
presenza dell’abbondanza, della prosperità, del cibo buono e
genuino. Cibo che poi si trovava sulla tavola, ogni giorno, via via
che i singoli pezzi avevano compiuto la loro stagionatura.