Continuava a nevicare. Erano
dieci giorni che i quattro operai aspettavano di poter eseguire i
controlli agli impianti della diga per i quali erano saliti fin
lassù. A duemila metri di quota, circondati da un paesaggio sommerso
dalla neve, non avevano altra scelta che quella di rimanere rintanati
nella casa del custode. E passavano il tempo giocando ai dadi. Era
stato Carletto, il più giovane, ad avere l'idea. Carletto, abile
sciatore, scendeva in paese ogni tre giorni. Andava giù nel
pomeriggio e ritornava l'indomani mattina con uno zaino di provviste.
Una faticaccia: sci in discesa e racchette ai piedi nella salita. Da
quindici giorni il gatto delle nevi, il mezzo cingolato in dotazione
alla centrale, era guasto; si aspettava che un meccanico potesse
salire per ripararlo, ma non arrivava mai. Così era stato deciso che
i quattro, ormai saliti, aspettassero di poter eseguire il loro
lavoro e uno di loro provvedesse ai rifornimenti a piedi.
Carletto affrontava la fatica
e i disagi del viaggio per le provviste e, cosa segreta ma per lui
molto importante, per mantenere i contatti con il mondo femminile. In
paese aveva la fama d'essere un conquistatore di donne. Di questo
argomento non parlava mai: era uno di quelli che tacciono, ma
agiscono. I compaesani dicevano ci fossero sempre almeno due ragazze
che si consideravano fidanzate legittimamente con lui.
Una mattina, dunque, Carletto
arrivò alla diga con i dadi. Li gettò sulla tavola in mezzo alle
pagnotte, alle scatolette di carne, ai formaggi e ai pacchetti di
sigarette: cinque dadi da poker con relativo bossolo di cuoio,
bellissimi. Olivo e Adeodato li guardarono un po' stupiti, coi dadi
non avevano mai giocato. Lino invece li aveva usati qualche volta, da
militare. «Con questi passeremo il tempo bene» aveva detto
Carletto, poi aveva spiegato le regole del gioco: «Si buttano i
dadi: per il punteggio contano soltanto il re, che vale cinquanta
punti, e l'asso, che ne vale cento. Fin che si fanno punti, si
possono tirare i rimanenti dadi e se vengono tutt'e cinque si fa un
altro giro. Qui però viene il bello» aveva sottolineato Carletto:
«se nessun dado presenta un re o un asso, cioè se si fa cista,
termine che indica zero punti, quelli appena realizzati si annullano
e il punteggio rimane fermo come al precedente giro. Vince chi supera
per primo duemila».
Dapprincipio Olivo e Adeodato
avevano giocato con un certo impaccio perchè faticavano a prendere
dimestichezza con le regole; poi, via via, avevano snellito i loro
gesti e avevano messo nel gioco passione e entusiasmo. La posta era
bassa, cinque euro, tanto per ravvivare le partite con l'interesse.
Tuttavia erano tante le ore della giornata dedicate al gioco che al
momento d'andar a letto qualcuno, bersagliato dalla sfortuna, poteva
aver perduto anche più di cento euro. Aveva però la speranza di
rifarsi il giorno dopo.
Ma ciò che dava vivacità
alle partite non era tanto la paura di perdere molto denaro o la
speranza di vincerlo, quanto la lotta che i giocatori ingaggiavano
con la iettatura. Era stato Carletto, superstizioso sfegatato, che
aveva portato, oltre alla smania per il gioco, il clima degli
scongiuri. Sicché ogni lancio dei dadi era preceduto da parole
propiziatorie del giocatore e da altre di malaugurio da parte dei
rivali. Nella cucina del custode sembrava ci fossero non quattro
giocatori ma venti, tante erano le risate, le imprecazioni, le grida
di entusiasmo che via via si alternavano o si sommavano. Ma il tutto
in una atmosfera bonaria, divertente anche per chi perdeva.
A mano a mano che passavano i
giorni Adeodato si andava facendo il più accanito dei giocatori e
affrontava ogni partita con l'impegno di chi si accinge a un compito
di bravura. Il suo occhio scrutava con rapidità i dadi sulla tavola
e il foglietto dei risultati; le sue mani tradivano l'emozione e il
nervosismo con il continuo sfregamento dei polpastrelli sul palmo; le
sue labbra bisbigliavano frasi di evocazione. Se il suo punteggio non
procedeva di pari passo con quello degli altri, si lamentava come se
fosse stato colpito da una sventura. Ma se la fortuna lo assisteva
facendo balzare avanti i suoi punti, allora Adeodato trattava gli
avversari con superiorità, li sbeffeggiava, rideva a crepapelle
davanti a chi lanciava i dadi senza fare un punto. «Ha fatto cista»
gridava, «ha fatto cista, cista, come gli sta bene questa cista».
Ripeteva questa strana parola, che aveva sentito per la prima volta
sulla bocca di Carletto, come se gli fosse familiare dall'infanzia.
«Càlmati, càlmati» gli dicevano gli altri, «non ti esaltare
troppo, lasciaci giocare tranquilli».
Un pomeriggio Adeodato, nel
primo giro di una partita, fece duemila punti. Si mise a fare salti
di gioia. «Guardate che giocatore, sono» diceva. «Provate voi, se
siete capaci di fare qualcosa del genere». La partita praticamente
l'aveva già vinta: Carletto aveva 150 punti, Lino 300 e Olivo appena
50. Chi poteva avere una fortuna come la sua, per fare un balzo tale
da oltrepassare i duemila? E poi, a lui restava sempre l'ultima
parola: chissà quanti altri punti avrebbe azzeccato.
«Bene» disse Carletto
afferrando il bossolo con i dadi, «quanto vuoi scommettere che vinco
io?» Adeodato gli fece una risata sulla faccia.
«Ti vuoi proprio suicidare»
disse.
«Se perdo ti do cento volte
la puntata, cinquecento euro; ma se vinco» e qui Carletto fece una
pausa guardando l'amico fissamente negli occhi «mi lasci andare a
portare i saluti a tua moglie, stasera, quando scendo in paese».
Ci fu silenzio. Adeodato si
fece improvvisamente serio. Per la sua mente passarono, rapidi, molti
pensieri: la fama di dongiovanni di Carletto; la propria moglie
bella, giovane, sola nella casetta appartata dietro la chiesa; la
provocazione che l'amico gli stava facendo, perché era evidente che,
se gli chiedeva il permesso di andarla a «salutare», intendeva in
realtà chiedergli il permesso di andarla a insidiare. Ma d'altra
parte non poteva, lui, Adeodato, dimostrare d'aver paura della
galanteria da strapazzo di Carletto; sua moglie gli era senza dubbio
fedele, non avrebbe corso pericoli; e infine qui, al proprio attivo,
aveva già duemila punti, vale a dire la partita di fatto vinta.
Tutti lo stavano a fissare, tutti aspettavano una sua decisione.
«Ci sto» disse, «se tu
riesci a vincere, puoi andare a portare i miei saluti a mia moglie».
Tirò per primo Lino e fece
150 portando la sua quota a 450, lontanissima dalla vittoria. Poi
tirò Olivo: gli venne un asso e basta, era decisamente tagliato
fuori. Carletto chiese, con un gesto delle braccia, che facessero
largo. Tolse dal portamonete un piccolissimo corno di ferro, che non
aveva mai usato e che nessuno gli aveva mai visto, e lo introdusse
nel bossolo con i dadi. Era soltanto l'inizio di un complesso rito
propiziatorio. Incominciò ad agitare il bussolotto con gesto largo e
lento, pronunciando strane, incomprensibili parole. Adeodato lo
guardava con un sorriso di sufficienza. Carletto, piccolo com'era, si
protese sul tavolo, vi si sdraiò quasi col busto per raggiungere il
centro, prese a fare con la bocca un richiamo delicato, pieno di
amore e di dolcezza, come se dovesse chiamare un caro animale
domestico che s'era sperduto. «Piccoli assi miei, venite, venite»
disse alla fine e tirò i dadi con estremo garbo, facendoli uscire
roteando il bossolo leggermente inclinato.
Ne vennero quattro, di assi.
Carletto tirò il quinto e fu un re. Doveva quindi continuare il
gioco. Rimise dentro l'amuleto assieme ai cubi, riprese a pronunciare
le strane frasi. Adeodato si mise a gridare: «Cista, fai cista» per
tentare di combattere l'atmosfera che il rivale stava creando.
«Adesso ti viene una cista e perdi tutto, cista, cista, cista».
Carletto vuotò ancora con delicatezza il bussolotto ed ebbe due assi
e due re, tirò il rimanente dado e fu un asso. Era arrivato a 850
punti e poteva tirare di nuovo.
«Dài, che ce la fai»
l'incitavano Lino e Olivo. Adeodato si mise a imprecare. «Basta con
quel corno» gridò,«devi tirare i dadi da soli. Ma tanto, questa
volta non fai niente e perdi tutto». Carletto, sempre steso sul
tavolo, sempre chiamando gli assi come fossero gattini smarriti,
tornò a tirare, questa volta senza amuleto: altri quattro assi e un
re.
«Roba da matti, non si è mai
saputo di una fortuna così sfacciata. Non voglio più vedere,
guardate voi» disse Adeodato, rivolgendosi a Lino e Olivo, «poi mi
chiamate» e si andò a sedere vicino alla finestra.
Passarono tre minuti di grande
tensione, con un silenzio rotto solo dal bisbigliare di Carletto e
dal rotolare dei dadi sulla tavola. Poi si udì un grido di Olivo:
«Fuori! è arrivato a 2050, ha vinto lui».
Adeodato si alzò in piedi,
pallido, si avvicinò al tavolo con l'impressione di vacillare. Ma
non era perduto niente, ancora: toccava a lui chiudere il gioco.
Possibile che non facesse cento punti, cinquanta più
dell'avversario? Tirò senza pensarci tanto, voleva farsi vedere
superiore a tutti, coraggioso. Non uscì niente.
«Cista, cista» gridò
Carletto con un balzo: «ho vinto!»
Non riusciva a prender sonno,
Adeodato. Pensava a Carletto che era giù, in paese, ed era andato a
portare i saluti a Gisella. Chissà cosa aveva tentato di fare.
Questo pensiero gli stava rodendo la testa e gli insinuava un senso
di colpa crescente. Aveva voluto sfidare il normale corso delle cose.
Ma perchè lo aveva fatto? Se lo chiedeva senza sapersi dare una
risposta, solo ne raccoglieva maggiore peso, accoramento,
consapevolezza dell'errore commesso. Pensava: non si può pretendere
di affrontare i misteri che ci circondano, provocare ciò che non si
conosce. Di Gisella aveva sempre avuto fiducia ed era certo che
finora questa fiducia fosse stata ben riposta, ma adesso con questo
atto insensato andava a sconvolgere la quiete, la linearità
dell'andamento degli eventi. Gettava Gisella nelle braccia di
Carletto, ecco il risultato: proprio una follia, sapendo quale fama
di donnaiolo lui godeva.
E poi, a ben riflettere, c'era
da essere proprio tanto sicuri di Gisella? Una volta, ricordava,
l'aveva sorpresa a parlare con il postino e le aveva chiesto che cosa
stessero dicendo, ma lei era arrossita e non aveva saputo rispondere.
Ora Carletto era andato a casa sua a portare quei maledetti saluti.
Forse era riuscito a prolungare la visita, forse era restato
addirittura a cena con la Gisella; forse era ancora là adesso. Non
poteva resistere. Si alzò, piano, perché Lino e Olivo non se ne
accorgessero. Prese gli sci. Sarebbe andato giù, a vedere.
Fortunatamente c'era la luna, in meno di due ore sarebbe arrivato
davanti a casa.
Vi giunse poco dopo lo
scoccare della mezzanotte, sudato e ammaccato in più punti per due
cadute. Il cuore gli batteva forte. Che cosa avrebbe detto a Gisella,
per giustificare quell'improvviso ritorno? Niente, che aveva tanta
voglia di vederla. E se avesse trovato in casa Carletto? Picchiò
tre colpi di battente poi, rapidamente, si portò a fianco della
casa, un po' scostato, per tenere d'occhio sia la porta d'ingresso
sia le finestre sul retro. Trascorse un minuto di silenzio che gli
parve lunghissimo, poi la finestra del pianterreno, dietro, si
spalancò di colpo e un uomo balzò fuori e subito si mise a correre
sulla neve gelata, verso il bosco. Era alto, magro, non era Carletto.
Quasi istupidito dalla visione, Adeodato tardò qualche momento a
rendersi conto che ai piedi della finestra l'uomo aveva perduto un
indumento. Andò a raccoglierlo, era una giacca di renna marrone. Era
la giacca del figlio del farmacista: soltanto lui, in paese, ne aveva
una.
Adeodato rimase immobile,
come pietrificato. Poi si portò le mani a coprirsi la faccia e
scoppiò in pianto. Dunque tutto finiva: non più giorni felici, a
pensare a Gisella così buona, che gli voleva tanto bene. Era, è,
una vigliacca traditrice che si merita solo di essere cacciata con un
calcio in culo. Ma adesso che fare? Andare dentro e far partire il
dramma per annunciarle che la caccerà, che divorzieranno? Rimase
ancora per un po’ immobile. Il freddo era pungente, lo faceva
tremare. Gli sovvennero gli amici che si sarebbero accorti della sua
assenza e l’avrebbero aspettato. Si mosse per tornare: sì,
bisognava pensarci su, possibilmente anche dormire. Comunque fosse
andata, la sua vita cambiava.