domenica 23 ottobre 2016

Un mestiere

La notizia era giunta al giornale solo nella tarda serata: qualche ora prima, nel pomeriggio, in un paese di montagna della provincia, una ragazza di venti anni era morta in circostanze misteriose per un colpo di arma da fuoco al cuore. Al momento della sciagura ella si trovava in compagnia del fidanzato, in un campo isolato da qualsiasi abitazione, a due chilometri dal paese. L'uomo aveva dichiarato che la ragazza, mentre sedeva al suo fianco, gli aveva improvvisamente tolto di tasca la rivoltella e si era uccisa. Simile versione non aveva convinto i carabinieri i quali avevano subito fermato l'individuo. Era una «notiziaccia» da far saltare sulla sedia anche il cronista più indolente: c'erano novantanove probabilità su cento che si trattasse di delitto e un delitto, per quel nostro giornale di provincia, era una inaspettata miniera che ci avrebbe regalato per una mezza dozzina di giorni ottima materia prima. Il direttore mi disse di partire l'indomani mattina presto e si raccomandò che facessi anche molte fotografie.
Arrivai nel paese, con l'automobile, alle otto e, prima ancora di andare a sentire la versione ufficiale della polizia, cercai di avvicinare coloro che conoscevano i personaggi del dramma onde ricostruire i fatti per conto mio.
La storia era abbastanza interessante. La vittima, Maria, faceva la bigliettaia nel baraccone della donna serpente che da una decina di giorni si trovava in paese per la Fiera imminente.
Maria era meridionale; due anni prima si era trasferita in una grande città del Nord assieme ad altre tre sorelle, in cerca di lavoro, e tutt'e quattro si erano
sistemate come donne di servizio. Lei si era fidanzata con un giovane che faceva la guardia notturna. Poi, un giorno, aveva imparato che quest'uomo era sposato e aveva due figli, perciò lo aveva lasciato. E poichè lui insisteva per non perderla, era partita dalla città con il baracccone della donna serpente. La mattina del giorno del fattaccio lui era arrivato in paese e l' aveva avvicinata. C'era chi li aveva visti e sentiti litigare, altri li avevano visti, nel pomeriggio, incamminarsi come due innamorati felici verso la campagna in cerca di solitudine. Più tardi lei era
morta per un colpo di rivoltella.
Quando ebbi riempito d'appunti parecchi foglietti del taccuino e scattato una decina di fotografie sul luogo della tragedia e a coloro che in un modo o nell'altro potevano essere tirati in ballo negli articoli che dovevo fare, andai alla caserma dei carabinieri per ave,re notizie ufficiali e, possiilmente, la fotografia dell'uomo fermato. Mentre mi accingevo a suonare il campanello, sentii alle mie spalle una sonora risata. Mi voltai e vidi Renato, un mio collega redattore di un'agenzia giornalistica. «E' inutile che tu provi», disse, «non ti lasciano nemmeno entrare».
Andai a sedermi sul parafango della sua macchina che era all'ombra della casa di fronte. «Se vuoi una buona notizia», mi disse, «te la do io». Rimasi a guardarlo interrogativamente. «Dentro ci sono le tre sorelle di Maria, che sono arrivate stanotte: le stanno interrogando».
«Caspita», dissi io alzandomi in piedi e mettendo istintivamente le mani sulla macchina fotografica che avevo a tracolla. «Puoi star calmo», disse Renato, «non si lasciano fotografare: ho provato io, prima che entrassero in caserma, ma non c'è niente da fare». Io dondolavo la testa, turbato; pensavo che sarebbe stata una fotografia interessante; se fossi tornato in redazione a dire che avevo visto le sorelle di Maria e non le avevo fotografate, il direttore sarebbe andato in furia. «Sono tre ragazze bellissime» aggiunse Renato scandendo bene le parole, «vestite di nero, con gli occhi arrossati dal pianto, ma bellissime lo stesso».
Avevo la smania nelle gambe e non riuscivo a star fermo. Avrei voluto essere solo e poter fare, in esclusiva, la fotografia delle ragazze, ma la situazione era ben diversa. Renato stava comodamente seduto sul sedile e non dimostrava alcuna intenzione di andarsene; e inoltre la fotografia si annunciava difficile, almeno secondo quanto diceva lui. Sarebbe stato meglio non considerarci concorrenti e lavorare d'accordo, forse così avremmo avuto maggior successo. Gliene parlai e lui acconsentì. Si trattava, ora, di escogitare qualcosa che ci permettesse di fotografare le sorelle di Maria. Ci mettemmo a pensare, in silenzio.
La striscia bianca di sole, nella strada, si andava sempre più allargando, si adagiava già su di un fianco della macchina e l'aria era afosa. «Ho trovato» dissi io a un tratto, «quando escono, ci offriamo di accompagnarle sul posto dove è morta Maria per deporvi dei fiori e intanto che loro posano i fiori noi scattiamo le fotografie». Renato stava dicendo: «Ma i fiori... » quando si aprì la porta della caserma: erano proprio loro, alte belle, vestite di nero, che uscivano. Balzammo dalla macchina e andammo loro incontro. «Se volete che andiamo a portare un po' di fiori dove è successo il fatto... » io dissi, indicando l'automobile di Renato e avviandomi per precederle. Avevano occhi che parevano vuoti, lontani, e i capelli arruffati. Continuavo a tenere il braccio proteso verso la macchina e loro andavano in quella direzione, automaticamente, mute.
L'automobile partì con un sobbalzo nella chiazza bianca e afosa della strada. Io stringevo nervosamente la macchina fotografica. «E i fiori? ...» chiese a un tratto con voce debole una delle ragazze. «Adesso li prendiamo» disse pronto Renato e incominciò a guardare nelle vetrine delle poche botteghe. Ma non c'erano fiorai, lo capimmo ben presto e un fruttivendolo ce ne diede conferma con un'espressione meravigliata; eppure bisognava assolutamente che li trovassimo. Una delle ragazze, al mio fianco, si mise a piangere sommessamente. «Prova a fermarti davanti a quella villa» suggerii a Renato con voce malsicura; e infatti di fianco allo stabile si vedeva, tra il verde, il rosso delle rose. La donna che venne ad aprire il cancello non ne voleva sapere di darmi dei fiori, diceva che ne aveva pochissimi e che la sua padrona li aveva contati. Allora le misi in mano un biglietto di banca e lei tacque e andò a prendere cinque rose.
L'auto partì velocemente e dopo pochi minuti si fermò all'imbocco della carrareccia che portava al luogo della tragedia. Ci avviammo a piedi, in silenzio, sotto il sole pieno. Avevo bisogno di liberarmi le mani per preparare la macchina fotografica e allora allungai i fiori a una delle ragazze che li prese con gesto lento; ma un attimo dopo incominciò a singhiozzare, dapprima piano, poi sempre piu rumorosamente. Eravamo giunti sul posto: io mi fermai e indicai un punto sotto una pianta d'olmo. La ragazza che piangeva lanciò un urlo acutissimo e guardò con occhi atterriti la terra; le sorelle le si appressarono e l'abbracciarono piangendo, poi tutte si chinarono per posare i fiori. «Maria, Maria» incominciarono a gridare all'unisono, «perché sei morta, Maria?» Renato ed io ci scostammo e incominciammo a guardare dentro i reflex delle nostre macchine. Sotto l'albero il sole filtrava tra le foglie e gettava sul gruppo delle donne nere e sulla terra violente chiazze bianche. Le ragazze, inginocchiate, si chinavano ritmicamente a baciare la terra, poi lanciavano al cielo le braccia chiamando disperatamente Maria, quindi tornavano a chinarsi. «Maria, Maria eri la più bella di tutte noi, perché sei morta?»
Inframezzata a quelle grida sentii la voce di Renato, bassa e frettolosa: «Che diaframma. tieni, tu?» mi chiedeva. Io dissi un numero poi gli precisai che poteva andar bene con una pellicola molto sensibile. «Se si spostassero al sole» disse Renato, « queste chiazze rovinano tutto ... ». «Non ti preoccupare» dissi io, «fai conto che sia ombra piena». E continuammo a scattare. Le loro lamentazioni sembrava non dovessero più finire: erano staccate dalla realtà presente, pareva uscissero da una tragedia greca. Quando ebbi ultimato il rotolo mi avvicinai alle ragazze: «Bisogna farsi animo» dissi, «non serve a nulla abbandonarsi a questa disperazione, è peggio».
Renato ed io le sospingemmo con delicatezza verso la macchina. Ci dissero che gradivano andare al parco divertimenti e là le portammo. Quelli dei baracconi vennero in massa a riceverle ed esse, piangendo, dissero che noi avevamo voluto portare dei fiori dove era morta Maria. Allora tutti ci furono intorno, premurosi, e certe vecchie tentarono di baciarci le mani. Noi salutammo in fretta le ragazze e ce ne andammo.
«Se sono venute bene sono una cannonata, queste fotografie» disse Renato, mentre mi accompagnava alla mia auto. «Devono essere belle davvero» dissi io e mi pareva già di vedere, nella pagina, il gruppo nero, scultoreo, delle tre donne inginocchiate sullo sfondo abbacinante del cielo assolato.

Uscito su Stampa Sera – Mercoledì 2 – giovedì 3 Marzo 1955

sabato 22 ottobre 2016

È tutta colpa dell'OCR !

Chiedo scusa ai pochi ma affezionati lettori di questo blog per la vergognosa diluizione delle nuove uscite. Il fatto è che ho ormai pubblicato tutti i brani brevi inediti che ho trovato sul computer di Remo. Restano parecchie centinaia di racconti usciti su Stampa Sera a partire dal 1953, più qualcos'altro su altre testate, ma sono tutti in formato cartaceo.

Mi sono dotato di uno dei più rinomati programmi di OCR (Optical Character Recognition, per estrarre il testo da una scansione) ma, vuoi perché la colla ha fatto increspare i ritagli che Remo aveva raccolto, vuoi perché la carta negli anni è ingiallita, vuoi perché i caratteri sono sbiaditi, i risultati sono deludenti. L'interpretazione del testo risulta così scadente che, in pratica, non c'è nessun vantaggio a correggerla rispetto a ribattere completamente il testo a mano; e questo, ovviamente, richiede parecchio tempo.

Daniele Lugli