La notizia era
giunta al giornale solo nella tarda serata: qualche ora prima, nel
pomeriggio, in un paese di montagna della provincia, una ragazza di
venti anni era morta in circostanze misteriose per un colpo di arma
da fuoco al cuore. Al momento della sciagura ella si trovava in
compagnia del fidanzato, in un campo isolato da qualsiasi abitazione,
a due chilometri dal paese. L'uomo aveva dichiarato che la ragazza,
mentre sedeva al suo fianco, gli aveva improvvisamente tolto di tasca
la rivoltella e si era uccisa. Simile versione non aveva convinto i
carabinieri i quali avevano subito fermato l'individuo. Era una
«notiziaccia» da far saltare sulla sedia anche il cronista più
indolente: c'erano novantanove probabilità su cento che si trattasse
di delitto e un delitto, per quel nostro giornale di provincia, era
una inaspettata miniera che ci avrebbe regalato per una mezza dozzina
di giorni ottima materia prima. Il direttore mi disse di partire
l'indomani mattina presto e si raccomandò che facessi anche molte
fotografie.
Arrivai nel paese,
con l'automobile, alle otto e, prima ancora di andare a sentire la
versione ufficiale della polizia, cercai di avvicinare coloro che
conoscevano i personaggi del dramma onde ricostruire i fatti per
conto mio.
La storia era
abbastanza interessante. La vittima, Maria, faceva la bigliettaia nel
baraccone della donna serpente che da una decina di giorni si trovava
in paese per la Fiera imminente.
Maria era
meridionale; due anni prima si era trasferita in una grande città
del Nord assieme ad altre tre sorelle, in cerca di lavoro, e tutt'e
quattro si erano
sistemate come donne
di servizio. Lei si era fidanzata con un giovane che faceva la
guardia notturna. Poi, un giorno, aveva imparato che quest'uomo era
sposato e aveva due figli, perciò lo aveva lasciato. E poichè lui
insisteva per non perderla, era partita dalla città con il
baracccone della donna serpente. La mattina del giorno del fattaccio
lui era arrivato in paese e l' aveva avvicinata. C'era chi li aveva
visti e sentiti litigare, altri li avevano visti, nel pomeriggio,
incamminarsi come due innamorati felici verso la campagna in cerca di
solitudine. Più tardi lei era
morta per un colpo
di rivoltella.
Quando ebbi riempito
d'appunti parecchi foglietti del taccuino e scattato una decina di
fotografie sul luogo della tragedia e a coloro che in un modo o
nell'altro potevano essere tirati in ballo negli articoli che dovevo
fare, andai alla caserma dei carabinieri per ave,re notizie ufficiali
e, possiilmente, la fotografia dell'uomo fermato. Mentre mi accingevo
a suonare il campanello, sentii alle mie spalle una sonora risata. Mi
voltai e vidi Renato, un mio collega redattore di un'agenzia
giornalistica. «E' inutile che tu provi», disse, «non ti lasciano
nemmeno entrare».
Andai a sedermi sul
parafango della sua macchina che era all'ombra della casa di fronte.
«Se vuoi una buona notizia», mi disse, «te la do io». Rimasi a
guardarlo interrogativamente. «Dentro ci sono le tre sorelle di
Maria, che sono arrivate stanotte: le stanno interrogando».
«Caspita», dissi
io alzandomi in piedi e mettendo istintivamente le mani sulla
macchina fotografica che avevo a tracolla. «Puoi star calmo», disse
Renato, «non si lasciano fotografare: ho provato io, prima che
entrassero in caserma, ma non c'è niente da fare». Io dondolavo la
testa, turbato; pensavo che sarebbe stata una fotografia
interessante; se fossi tornato in redazione a dire che avevo visto le
sorelle di Maria e non le avevo fotografate, il direttore sarebbe
andato in furia. «Sono tre ragazze bellissime» aggiunse Renato
scandendo bene le parole, «vestite di nero, con gli occhi arrossati
dal pianto, ma bellissime lo stesso».
Avevo la smania
nelle gambe e non riuscivo a star fermo. Avrei voluto essere solo e
poter fare, in esclusiva, la fotografia delle ragazze, ma la
situazione era ben diversa. Renato stava comodamente seduto sul
sedile e non dimostrava alcuna intenzione di andarsene; e inoltre la
fotografia si annunciava difficile, almeno secondo quanto diceva lui.
Sarebbe stato meglio non considerarci concorrenti e lavorare
d'accordo, forse così avremmo avuto maggior successo. Gliene parlai
e lui acconsentì. Si trattava, ora, di escogitare qualcosa che ci
permettesse di fotografare le sorelle di Maria. Ci mettemmo a
pensare, in silenzio.
La striscia bianca
di sole, nella strada, si andava sempre più allargando, si adagiava
già su di un fianco della macchina e l'aria era afosa. «Ho trovato»
dissi io a un tratto, «quando escono, ci offriamo di accompagnarle
sul posto dove è morta Maria per deporvi dei fiori e intanto che
loro posano i fiori noi scattiamo le fotografie». Renato stava
dicendo: «Ma i fiori... » quando si aprì la porta della caserma:
erano proprio loro, alte belle, vestite di nero, che uscivano.
Balzammo dalla macchina e andammo loro incontro. «Se volete che
andiamo a portare un po' di fiori dove è successo il fatto... » io
dissi, indicando l'automobile di Renato e avviandomi per precederle.
Avevano occhi che parevano vuoti, lontani, e i capelli arruffati.
Continuavo a tenere il braccio proteso verso la macchina e loro
andavano in quella direzione, automaticamente, mute.
L'automobile partì
con un sobbalzo nella chiazza bianca e afosa della strada. Io
stringevo nervosamente la macchina fotografica. «E i fiori? ...»
chiese a un tratto con voce debole una delle ragazze. «Adesso li
prendiamo» disse pronto Renato e incominciò a guardare nelle
vetrine delle poche botteghe. Ma non c'erano fiorai, lo capimmo ben
presto e un fruttivendolo ce ne diede conferma con un'espressione
meravigliata; eppure bisognava assolutamente che li trovassimo. Una
delle ragazze, al mio fianco, si mise a piangere sommessamente.
«Prova a fermarti davanti a quella villa» suggerii a Renato con
voce malsicura; e infatti di fianco allo stabile si vedeva, tra il
verde, il rosso delle rose. La donna che venne ad aprire il cancello
non ne voleva sapere di darmi dei fiori, diceva
che ne aveva pochissimi e che la sua padrona li aveva contati. Allora
le misi in mano un biglietto di banca e lei tacque e andò a prendere
cinque rose.
L'auto partì
velocemente e dopo pochi minuti si fermò all'imbocco della
carrareccia che portava al luogo della tragedia. Ci avviammo a piedi,
in silenzio, sotto il sole pieno. Avevo bisogno di liberarmi le mani
per preparare la macchina fotografica e allora allungai i fiori a una
delle ragazze che li prese con gesto lento; ma un attimo dopo
incominciò a singhiozzare, dapprima piano, poi sempre piu
rumorosamente. Eravamo giunti sul posto: io mi fermai e indicai un
punto sotto una pianta d'olmo. La ragazza che piangeva lanciò un
urlo acutissimo e guardò con occhi atterriti la terra; le sorelle le
si appressarono e l'abbracciarono piangendo, poi tutte si chinarono
per posare i fiori. «Maria, Maria» incominciarono a gridare
all'unisono, «perché sei morta, Maria?» Renato ed io ci scostammo
e incominciammo a guardare dentro i reflex delle nostre macchine.
Sotto l'albero il sole filtrava tra le foglie e gettava sul gruppo
delle donne nere e sulla terra violente chiazze bianche. Le ragazze,
inginocchiate, si chinavano ritmicamente a baciare la terra, poi
lanciavano al cielo le braccia chiamando disperatamente Maria, quindi
tornavano a chinarsi. «Maria, Maria eri la più bella di tutte noi,
perché sei morta?»
Inframezzata a
quelle grida sentii la voce di Renato, bassa e frettolosa: «Che
diaframma. tieni, tu?» mi chiedeva. Io dissi un numero poi gli
precisai che poteva andar bene con una pellicola molto sensibile. «Se
si spostassero al sole» disse Renato, « queste chiazze rovinano
tutto ... ». «Non ti preoccupare» dissi io, «fai conto che sia
ombra piena». E continuammo a scattare. Le loro lamentazioni
sembrava non dovessero più finire: erano staccate dalla realtà
presente, pareva uscissero da una tragedia greca. Quando ebbi
ultimato il rotolo mi avvicinai alle ragazze: «Bisogna farsi animo»
dissi, «non serve a nulla abbandonarsi a questa disperazione, è
peggio».
Renato ed io le
sospingemmo con delicatezza verso la macchina. Ci dissero che
gradivano andare al parco divertimenti e là le portammo. Quelli dei
baracconi vennero in massa a riceverle ed esse, piangendo, dissero
che noi avevamo voluto portare dei fiori dove era morta Maria. Allora
tutti ci furono intorno, premurosi, e certe vecchie tentarono di
baciarci le mani. Noi salutammo in fretta le ragazze e ce ne andammo.
«Se sono venute
bene sono una cannonata, queste fotografie» disse Renato, mentre mi
accompagnava alla mia auto. «Devono essere belle davvero» dissi io
e mi pareva già di vedere, nella pagina, il gruppo nero, scultoreo,
delle tre donne inginocchiate sullo sfondo abbacinante del cielo
assolato.
Uscito su Stampa
Sera – Mercoledì 2 – giovedì 3 Marzo 1955