lunedì 23 aprile 2012

Filomena

Un inverno degli Anni Cinquanta, in Piemonte. Era un freddo polare, nelle campagne gelavano le viti e nel Po il ghiaccio avanzava dalle rive verso il centro e rendeva esigua la striscia dell'acqua che si vedeva correre. Mi ricordai di Filomena, una barbona della quale avevamo parlato sul giornale alla fine dell'estate perché viveva sotto un ponte circondata da un nugolo di cani. Quando l'avevo incontrata per l'articolo, sotto l'arcata asciutta del torrente all'ombra fresca in una giornata di afa, mi aveva decantato la sua vita, libera, senza diritti ma anche senza doveri. Diceva che era felice dalla mattina alla sera e la notte, sul suo materasso di foglie di granturco, faceva sogni stupendi. Aveva una cinquantina d'anni ma ne dimostrava venti di più. Non sapeva dov'era nata, ricordava di avere avuto una famiglia, ma di averla abbandonata da ragazzina, forse a dieci anni, «per andare a vedere il mondo». Così si era messa in strada ed era andata di casa in casa a chiedere un pezzo di pane. Veniva dal Sud, forse da un paese del napoletano, ma non ne era sicura. Il suo girovagare non aveva come mete delle città o dei paesi, ma dei ponti. Quando ne trovava uno giusto, con un’arcata sicura, con l'acqua abbastanza distante da evitare sorprese, vi si sistemava con le sue cose, che erano un paio di fagotti, un materasso di foglie e due tegami. Di giorno andava in giro a cercare da mangiare. E quando il ponte e i dintorni le erano venuti a noia, ripartiva per cercarne un altro, con case non troppo vicine e cespugli in prossimità per le necessità intime.
Aveva avuto dei compagni, vagabondi come lei, sempre più anziani. Ci litigava perché si ubriacavano e invece lei, mi aveva spiegato, nel bere era brava, si sapeva fermare al momento giusto. L'ultimo compagno era morto da due d'anni; un mattino di febbraio se l’era trovato a fianco, ghiacciato nel sacco in cui era infilato, e da allora non s'era più voluta associare a nessuno. Aveva scoperto i cani. Il primo era stato un fox terrier, sperduto, che aveva un collare con medaglia e nastrino colorato. L'aveva seguita per tutta la giornata e anche la sera, sotto il ponte, e si era accucciato ai suoi piedi per passare la notte. Dopo il fox terrier, che aveva chiamato Primo, intuendo che ne sarebbero venuti altri, aveva avuto in regalo una lupacchiotta incinta. Così la famiglia era cresciuta.
Una scoperta, questa dei cani, che l'aveva entusiasmata. In quel nostro incontro aveva quasi sempre parlato di loro. Di sé sembrava che ricordasse pochissimo, si limitava a ripetere che era contenta della vita, proprio della vita che faceva. La gente era generosa, non le faceva mancare niente, c'era anche chi ogni tanto le portava sporte di pane secco per i cani. Per lei, comunque, quelli che contavano erano loro: Primo, Linda, Gigetto, Rosso, Bislacco e via di seguito. Tutti avevano una storia, un carattere e un comportamento. Bisognava capirli, non farli ingelosire, non impermalirli. Tutti le volevano un gran bene, gareggiavano per dimostrarglielo con le loro leccate come baci, la difendevano dai molestatori, le facevano compagnia nelle sue passeggiate di casa in casa. Lei ai cani parlava e loro capivano. Quando doveva entrare in un'aia, li faceva aspettare sulla strada, per evitare che invadessero il territorio dei cani padroni o che mettessero paura alla gente. Non tutti la seguivano, almeno due restavano sotto il ponte, di guardia al “letto”, ai fagotti e ai tegami. Prima di partire assegnava i compiti: oggi restate a casa voi due, Primo e Gigetto, oppure, Rosso e Linda. E i prescelti a restare, mi spiegava, capivano subito: seduti assistevano alla partenza del gruppo poi si accucciavano. Quel giorno di cani ne aveva otto. Mi avevano accolto abbaiando ma poi lei li aveva zittiti per chiedermi chi ero e che cosa volevo. Mi aveva accettato, fatto scendere dalla riva, ricevuto in "casa" e loro mi avevano accolto scodinzolando, mi ero seduto a terra e i cani si erano pure accucciati, tutt'intorno, e stavano in silenzio come se ascoltassero.
Erano passati sei mesi da quell'incontro, ora il gelo mordeva ogni cosa in maniera terribile, chissà che ne era di Filomena, che fosse ancora sotto quel ponte? Ci andai di pomeriggio, c'era un sole pallido, la temperatura era di otto gradi sotto zero e la notte prima si era avuto addirittura meno 20,3. I cumuli di neve ai lati della strada sembravano cemento. Munito di bastone per non scivolare, sormontai l'argine di neve del bordo strada in direzione della carrareccia che fiancheggiava il fiume. C'era un sentiero di neve battuta e questo sentiero dopo qualche metro scendeva giù per l'argine, verso l'acqua che era una lastra di ghiaccio lucente. Quelle tracce stavano a significare che c'era stato un passaggio recente dalla strada alla base della prima arcata e infatti non appena incominciai ad avventurarmi, con cautela, sulla neve ghiacciata della ripida discesa, si sentì il primo abbaio, acuto, stridente, di un cane piccolo, subito seguito da un abbaiare corale. Poi, ad uno ad uno tutti i cani si presentarono fuori dall'arcata, sul sentiero che costeggiava la riva, abbaiando e guardandomi. Erano i suoi cani.
«Filomena» chiamai, «Filomena, Filomena». I cani si misero a fare un finimondo: il silenzio del fiume veniva invaso da un intreccio di abbai, latrati, gagnolii che già denunciava una varietà di taglie. Certo Filomena non poteva riconoscere la mia voce, forse nemmeno riusciva a sentirmi. E invece improvvisamente tutti i cani tacquero, evidentemente lei li aveva zittiti. Non feci in tempo a pronunciare di nuovo il suo nome che la sentii : «Chi è?».
«Filomena, sono quel giornalista che venne questa estate, ricorda? Posso scendere?». Dal buio dell'arcata arrivò il «sì». Affrontai la discesa lentamente, sotto gli sguardi fissi dei cani, tutti silenziosi. A mano a mano che mi avvicinavo qualcuno dimenava la coda, segno che m'aveva riconosciuto. Li contai, erano otto, come quel giorno, sicuramente gli stessi: due grossi, quattro mezzani e due piccoli. Entrai sotto l'arcata preceduto, circondato e seguito dai cani. Filomena distesa, affondata nel grande materasso di foglie, sotto un mucchio di coperte. Sollevò la testa incappucciata con un passamontagna che arrivava alle sopracciglia, tirò fuori una mano e l'agitò in segno di saluto. Come prime parole non seppi dirle altro che: «Ma come fa a resistere con questo freddo?».
Rise: «Lo dice lei che è freddo. Per me no: ci sono loro che mi scaldano». E aggiunse subito: «Però lei, venendo qui, mi ha disfatto il letto, adesso devono tutti tornare al loro posto. Dài Gigetto, su Bislacco, avanti Primo, su, saltate su». Uno per uno tutti presero il loro posto: tre cani sdraiati sul lato sinistro, tre sul lato destro, simmetricamente, i grossi uno per parte e altrettanto i mezzani; poi i due piccoli stesi proprio sopra il corpo della padrona. «Oh, bene» disse, «così va bene, stiamo caldi tutti, io e voi». Si voltò verso di me: «Come mai è venuto a trovarmi?».
«Passavo da queste parti e mi sono ricordato di lei». Mi guardai intorno, in un raggio di tre metri c'erano tutte le sue cose: alcuni mattoni posati a far nicchia per il focolare, un sacco pieno a metà quasi certamente di pane, due pentole, alcuni sacchetti di plastica gonfi di qualcosa, un fiasco vuoto e uno mezzo di vino rosso, un bicchiere, due piatti e una fila di ciotole.
«Ha mangiato, oggi?».
«Certo che ho mangiato, vuole che non abbia mangiato? Siamo stati a girare tre ore, dalle undici alle due, sono venuti con me solo i due grossi, gli altri li ho fatti restare qui sul letto, al caldo. È andata bene: ho raccolto un po' di soldi e tante cose, oggi ho persino fatta la pasta asciutta, per tutti e nove quanti siamo. Poi, mezz'ora fa, ho deciso di chiudere la mia giornata, di venire a letto. Per oggi basta, sa, non sono giorni da stare tanto in giro».
«I cani la tengono calda ma loro non sono coperti, tremeranno».
«Ma cosa dice, guardi qui, alla mia destra, vede quella coperta? Io stanotte, rimanendo distesa, la tiro su e la lancio sopra a tutti, così anche loro sono a letto davvero, come me».
«Filomena, ma non sarebbe meglio che andasse nel dormitorio pubblico? Quello almeno è riscaldato».
«Fossi matta! Io, andarmi a far comandare? Mai. Qui faccio quello che voglio, domattina dormo fin che mi pare. Non nevica, non piove e ho i miei cani. Le sembra che possa abbandonarli? Sarei una sciagurata. Sapesse come sono preziosi, buoni. Noi ci parliamo: loro capiscono tutto e io comprendo quello che dicono con le loro abbaiate. Creda, è una vita bella. Se uno la sa apprezzare me la invidia».
«Filomena, in macchina ho un paio di panettoni, li vado a prendere. Ma poi i cani tornneranno a guastare il letto, come facciamo?».
«Ci penso io: glielo dico e loro stanno buoni. Fermi, non muovetevi. Vada pure».
Risalii, tornai giù coi panettoni e tutti rimasero fermi e zitti: avevano proprio capito tutto, qualcuno dimenava anche la coda, perché tornavo, o forse per i panettoni.
«Filomena, mi ha fatto piacere rivederla, tanti auguri», e le infilai qualche banconota sotto la coperta.
«Ciao, ciao, torni quando vuole. Tanto, per adesso, non cambio ponte».

martedì 3 aprile 2012

La gioia del recupero



La lunga zimarra grigia lo fa ancora più magro, slanciato. Il volto scarno è dominato dagli occhi verdi che si muovono con una vivacità giovanile. Gli anni non sono più pochi, forse oltre i 70, ma lo slancio che è nell’anima e in ogni gesto del corpo è carico di una forza e di una vitalità che sono ancora ben lontani dall’età avanzata.
Angelo D.B. è un artigiano del legno, restauratore di mobili antichi. Passa i suoi giorni nel cortile di una vecchia casa dove ha la bottega. Il suo laboratorio è sempre pieno di pezzi da riparare, c’è libero soltanto un piccolo spazio intorno al bancone da lavoro. Quando la riparazione e la stagione lo consentono, lavora oltre la soglia della bottega, all’aria aperta. La cultura in fatto di stili se l’è conquistata a poco a poco, facendo dapprima il garzone, da ragazzino, e poi l’aiuto falegname e infine l’artigiano in proprio. Nello scaffale degli attrezzi ha dedicato un ripiano ai volumi dei mobili d’arte. Assieme alla conoscenza teorica ha approfondito, con maestria, quella pratica.
A volte gli portano da riparare mobili antichi in sfacelo, rosi dai tarli e dall’umidità, o privi addirittura di qualche parte integrante. Per lui ogni nuovo arrivo è sempre una festa, non perché pensi al guadagno che potrà venirgli dal restauro, ma per la gioia che esso gli procurerà. Le mani di Angelo, ossute e ruvide, incominciano a palpare il legno, i polpastrelli si soffermano sugli intarsi e sugli intagli, sui rilievi delle cornici: una perlustrazione che sembra dare all’artigiano un voluttuoso piacere; può ricordare anche un medico che palpa il malato. Poi Angelo incomincia a illustrare l’oggetto. Dice epoca, zona di origine, qualità dei legni, dice se il costruttore lavorò bene, benissimo o con trascuratezza. Descrive come devono essere ricostruite le parti andate in malora, e se il cliente non apprende con facilità, corre allo scaffale, ne toglie un libro, lo apre a una certa pagina, si serve di una fotografia per spiegare meglio. Parla con fervore del nuovo lavoro, si sente che già pregusta il piacere di ricreare quello che è andato perduto, di riportare nella giusta luce quello che il tempo ha imbruttito.
Fa tutto da solo, Angelo D.B. «I giovani d’oggi non sono adatti per questo mestiere – dice–. Vogliono l’officina, dove si fanno cose automatiche che lasciano libero il pensiero alla fantasia per pensare alle corse in motocicletta che faranno all’uscita dal lavoro. Qui, invece, la testa bisogna tenerla ai mobili, perché non si può lavorare soltanto di mano». È un artigiano all’antica, una razza che, purtroppo, si va estinguendo. Con la sua competenza in materia potrebbe vivere da signore facendo il commerciante, l’antiquario. A chi gli accenna una simile possibilità, risponde con un gesto secco della mano. «No, no – dice–. Non potrei, per comperare bene, dire che un mobile è brutto quando invece so che è bello e pregiato e non potrei, per vendere a tutti i costi, decantarne uno falso o mal fatto o scarsamente autentico». Gli piace starsene in pace nella sua bottega, mettere mano agli arnesi, modellarsi i pezzi da sostituire, via via sentire sotto le sue mani il mobile rivivere a nuova vita, salvarlo.