mercoledì 9 novembre 2011

Intervallo festoso nella sventura


Ci vuole proprio una bella faccia tosta ad abbandonarla così, su due piedi, dopo quattro anni di fidanzamento, per poi sposare una che ha conosciuto da due mesi. Un delinquente, ecco che cos'è, uno sciagurato. Se Guido avesse avuto un poco di coscienza avrebbe calcolato che una donna di trent'anni non può, di punto in bianco, scegliersi un altro uomo come possibile marito. Praticamente la sua esistenza è rovinata. Ernesta non ce la fa a rimanere in ufficio, nel solito tran tran: per lei tutto è diverso dal solito; lei è in un mare di guai, con un pensiero fisso ossessionante. Ha bisogno di distrarsi, di cambiare aria, il mondo intorno a sé, come se le diversità potessero rendere diversa, più lieve, anche la sua sventura. Ci vogliono almeno dieci giorni di riposo, di lontananza, per vivere intimamente con se stessa e guardare dentro la sua anima per capire cosa fare, come affrontare il futuro e cercare le forze di recupero. Manda al capoufficio un certificato medico per dieci giorni di malattia. A sua madre dice: «Non ti occupare di me, vado in un posto solitario, in montagna, ti manderò l’indirizzo».
È autunno, una stagione morta, triste. Nell'albergo ci sono due coppie di vecchi, un medico sui quarant'anni e una ragazza malaticcia con la madre. l giorni passano lenti, esasperanti; ne sono trascorsi tre, lunghissimi. Dalle finestre della sala da pranzo si vedono le cime incappucciate di nebbia. Talvolta la nebbia scopre le cime e scende più bassa, anche fin giù, e allora tutto si trasforma in un mare lattiginoso, scompaiono le case e i boschi e tutto diventa ancora più triste. Poi case e boschi ricompaiono. Ogni giorno il gioco della nebbia si ripete, infine viene la sera e scende la malinconia. Un po’ di televisione e poi su, nella camera, a pensare, a piangere. «No, basta, io devo dimenticare, ce ne sono tanti di uomini, possibile che...».
D’improvviso, la quinta sera, si spalanca la porta mentre Ernesta è seduta allo specchio della toeletta. Entra di colpo il medico e si blocca: «Scusi, ho sbagliato porta», ma, invece di indietreggiare immediatamente, resta lì impalato a guardare la ragazza, anche lei immobile e stupita da questo fatto. Ma cerca di sorridere: «Non fa niente - mormora - non fa niente». Il medico lentamente si muove verso di lei, allunga le mani e l'abbraccia. Ernesta dice «Ma che maniera è...». Non fa in tempo a terminare la frase perché la sua bocca è coperta da quella di lui. Un bacio lungo, lunghissimo, al quale lei cerca inizialmente di ribellarsi, ma poi diventa partecipe. Alla fine il medico dice: «Bello, molto bello» e lei si mette a ridere. Lui va a chiudere la porta che era rimasta socchiusa, ritorna indietro e la ribacia. Ernesta si sente la testa confusa. Che strano fatto sta capitando. Però tutto sommato non le dispiace, è un diversivo che rompe la monotonia della montagna, dell’albergo, di queste serate. Quanto tempo è passato, due ore, tre ore? Bisogna che il dottore faccia piano ad uscire perché nessuno senta, ormai è piena notte e c’è un gran silenzio.
E così anche la sera dopo, tutte le sere dopo, ma sono poche, ormai sta scadendo il tempo di riposo che le era stato prescritto col certificato. Bisogna tornare in ufficio, riprendere la solita vita. Però questa solitudine, pensa Ernesta, l’ha rinfrancata, le è stata utile. E poi si può sempre tornare qui in montagna, per qualche week end. C’è un’aria così buona.