martedì 9 dicembre 2014

In memoria di Remo Lugli

E così, anche Remo se n'è andato. Avrebbe compiuto 94 anni fra un paio di settimane. Una morte annunciata. Una morte desiderata.
Ci sentivamo per telefono almeno una volta al mese. Lui da San Vito a Torino, io da Castelfranco di Modena. Nell'ultima telefonata mi disse: "Sono stanco. Desidero morire".
Più che l'infezione polmonare resistente agli antibiotici (che gli ha dato il colpo di grazia), a fiaccarne la resistenza è stata la ipoacusia lentamente degenerata in sordità totale. Per uno come lui non sentire equivaleva a morire. Non poter ascoltare "storie di vita" era come venisse a mancare la materia prima della sua narrazione, della sua scrittura.
Sì, perché scrittura e vita in lui si identificavano. Aveva già oltre 80 anni quando volle dare vita a questo blog, per il quale produsse tante "storie". Tante che, quando la morte è sopraggiunta, parecchie di esse non sono ancora state messe in rete.
Ecco perché, dopo una lunga latitanza, il blog, con frequenza variabile, riprende vita. È come se Remo vivesse ancora. Lui, che solo per "Stampa Sera" aveva sfornato ben 245 racconti.
Furono questi a convincere il mitico direttore Giulio De Benedetti a chiamarlo a La Stampa a Torino e ad affidargli l'incarico di inviato speciale. Assieme a Gigi Ghirotti, costituì un tandem insuperabile nel mondo giornalistico italiano di quegli anni.
Grande narratore, ma anche grande giornalista. Anni fa, sfogliando una antologia per le scuole medie, vi trovai una sua cronaca, proposta ai ragazzi come modello di semplicità, di umanità, di acume. Doti che aveva manifestato fin dal 1952 pubblicando, nei "Gettoni" Einaudi, "Le formiche sotto la fronte", finalista al premio Viareggio, piccolo classico della letteratura italiana del '900.
Seguirono poi "Il piano di sopra" (Mondadori, 1957), "La colpa è nostra" (Ceschina, 1962), "Tarlo ci cova" (Piazza editrice, 1990).
Ma il libro-saggio che ebbe maggior risonanza in campo nazionale fu "Gustavo Rol, una vita di prodigi" (Mediterranee, 1995). Remo conosceva meglio di chiunque altro il più grande sensitivo del secolo: lui e la moglie Else per anni furono fra i pochi ammessi nel suo salotto. Nel libro non v'è traccia di enfasi, di artificio.
Grande cronista, come al solito.

Ferruccio Veronesi

Ferruccio Veronesi, cronista, inviato, critico cinematografico, critico d'arte, scrittore, è il decano dei giornalisti modenesi. Già collega di Remo a La Gazzetta di Modena, negli anni ha mantenuto con lui un profondo rapporto di amicizia.

domenica 10 agosto 2014

Il prosciutto

Se stavo all’Ampergola d’inverno era perché erano i giorni delle vacanze di fine anno che si concludevano all’Epifania, quando sarei tornato nella casa di Modena, per riprendere la scuola. Quasi sempre in quel periodo c’era il rito della macellazione dei maiali, che allora trovavo di grande emozione e divertimento e che ora ricordo con raccapriccio e pena per le povere vittime. Per il nostro consumo annuale (eravamo in dieci, le famiglie di due fratelli, mio padre e mio zio, ma a tavola spesso sedeva qualche operaio in più oltre al mugnaio fisso) se ne uccidevano due o anche tre... In quei giorni, sempre di gran freddo, a volte di grandi nevicate, due macellatori venivano, prendevano possesso di un paio di stanze a pianterreno che trasformavano in laboratorio del quale si proclamavano sovrani, insindacabili esecutori di manipolazioni di carni e alchimie di spezie. Il rito s’apriva fuori, nell’aria gelida, con il crudele assalto del lungo coltello alla gola del suino, con il suo grugnito dapprima ignaro e dolce, poi aspro al primo sospetto per la troppa attenzione degli uomini intorno a lui. E infine il suo urlo straziante, l’ultimo sbuffo di fiato e il primo fiotto di sangue, prontamente raccolto in un bacile, perché sarebbe stato fritto, già per cena della sera stessa.

In una delle due stanze c’era un camino nel quale bolliva un pentolone d’acqua che spargeva intorno una nube di vapore, per scotennare e togliere le setole. E via via, lungo le ore della giornata, si susseguivano le varie operazioni di macellazione: le carni venivano suddivise, avevano ognuna la propria concia adeguata, andavano a formare le diverse specialità: strutto, lardo, salami, prosciutti, ciccioli. Il maiale che poche ore prima aveva vissuto il suo dramma finale nel grugnito dolce che sconfinava di colpo nell’urlo disperato, si tramutava nei tanti generi alimentari che avrebbero reso pingue e sapida per tutto l’anno la mensa familiare. Prodotti che avevano bisogno di maturazione, settimane, mesi, durante i quali modificavano la loro sostanza rendendola sempre più eccelsa per i palati che l’avrebbero degustata; e all’esterno, intanto, diffondevano una fragranza di delicata percezione.

Una volta finita l’opera dei conciatori, prosciutti, salami, cotechini venivano sospesi al soffitto in uno slargo del corridoio che portava alle camere da letto. Cosi, ogni volta che si percorreva questo tragitto, ci si immergeva nel diffuso sentore della carne sempre più promettente. In quel corridoio c’era anche il cestone del pane; pane casalingo, impastato una volta la settimana, all’alba, da tre o quattro congiunti e cotto nel nostro forno. Sicché, andando in camera e venendone, si percepiva, anche inconsapevolmente, la presenza dell’abbondanza, della prosperità, del cibo buono e genuino. Cibo che poi si trovava sulla tavola, ogni giorno, via via che i singoli pezzi avevano compiuto la loro stagionatura.

domenica 23 febbraio 2014

Freddo secco

Anni della mia infanzia. Nel rigore dell’inverno, in campagna. La cucina era l’unico locale riscaldato. Vi approdavo dall’esterno come a un’isola, intirizzito, orecchie, naso, mani insensibili; al tocco delle cose le dita rispondevano con una sensazione lontana, strana, quasi che venisse da un’altra persona. E all’improvviso caldo, mani, orecchie, naso ritornavano miei, presenti attraverso un rapido e breve bruciore. La stufa, grosso cubo fumante di vapori odorosi, era sempre cosparsa di pentole e tegami. I vetri delle finestre erano appannati, grondanti. Correvo a scriverci sopra o a disegnarci con l’indice che stava riacquistando la sensazione di se stesso. E le parole e le figure scoprivano, al di là della patina opaca, prati e alberi bianchi di neve o di brina. Mi bastava quello scorcio per risentire, imperioso, il desiderio di tornare fuori a correre nel cortile. Mi precipitavo alla porta. «Ma stai un po’ dentro» diceva mia madre, «non fai nemmeno in tempo a scaldarti».

Di sera, dopo cena, il caldo della cucina mi dava subito sonnolenza, la testa ciondolava: «A letto, a letto» diceva la mamma o mio padre. Il freddo gelido della stanza mi risvegliava bruscamente, incominciavo a battere i denti, ma più avevo freddo più grande era il piacere che provavo quando, un minuto dopo, mi infilavo nel letto riscaldato. Lanciavo piccole grida di gioia, una gioia che comprendeva il caldo delle coltri nel freddo della stanza e la presenza di mia madre che mi rimboccava le coperte. La rivedevo al mattino quando veniva ad interrompere il mio lungo, unico sonno. E allora c’era da vincere, con un grande sforzo, la fatica di uscire dalla calda nicchia e affrontare l’aria gelida della camera nella quale il fiato si staccava dalla bocca a nuvolette. Non c’era nemmeno da pensare di lavarsi nel catino in stanza, perché la brocca era piena di un blocco di ghiaccio. Correvo in cucina in maglia e ciabatte, l’involto dei vestiti sotto il braccio. Poi la colazione, che a volte era di latte e orzo, ma più spesso di gnocco fritto e in questo caso il locale era saturo, oltre che di caldo, anche di fumo e di profumo, quello buono, della tavola. Lanciavo grida di gioia e mangiavo di gusto ma in fretta, spinto dalla smania di uscire, di correre verso la mia giornata di avventure sulla neve e sul ghiaccio. La pelle del viso sembrava percorsa dalla corrente elettrica tanto l’aria esterna era pungente.

Com’era bella, là intorno al grande opificio dell’Ampèrgola, a Nonantola, la campagna nella crudezza invernale. Gli alberi erano tutto un arabesco, così argentati dalla galaverna; la terra scrocchiava sotto i piedi, secca di gelo. Nel bianco dei campi spiccava la macchia scura di un carro con cavallo e contadino; il carro era colmo di letame che fumava, anche le forcate che l’uomo lanciava intorno, sulla terra, striava l’aria di vapore bianco. Assieme al pizzicore del freddo giungevano al naso venature d’afrore.

domenica 19 gennaio 2014

Tombaroli


    Tarquinia, un’estate degli Anni Ottanta. Il tombarolo Perticarati, famoso come il “mago” per la sua capacità di scoprire nuove tombe etrusche, spiega la sua tecnica. Con il furino, un tondino di acciaio appuntito a spillo lungo 130 centimetri che ha per manico un pezzo di tubo posto trasversalmente, fa i suoi assaggi nel terreno. Lo pianta, lo preme, lo fa girare fin che non è sceso tutto. Penetrando nel tufo a un tratto gli dà un segnale con suono diverso: lì c’è la discesa di una tomba. Gli etruschi scavavano fino a una certa profondità poi, già nel tufo, estraevano il materiale fino a ricavare, sottoterra, la camera funeraria; dopo la sepoltura la discesa veniva riempita con il tufo pressato. Dice il “mago” che quando lo spillo trova il materiali di riempimento lui lo avverte, anche se non c’è differenza di durezza con il terreno attorno. Una sensibilità che gli frutta ogni tanto il successo desiderato (ma in una notte di lavoro i suoi assaggi possono superare anche il centinaio inutilmente); comunque gli ha già procurato anche otto anni di carcere. Si considera molto più esperto degli archeologi che «conosceranno tante cose dei libri ma sul terreno non sanno muoversi». Ancor prima di scavare, solo col furino sa dire l’età e le dimensioni della tomba. «Perché, ad esempio» spiega, «se la larghezza della discesa è di due metri è arcaica, dell’ottavo secolo avanti Cristo. E posso sapere con esattezza dove si trova il lastrone che copre la porta di accesso e lì basta uno scavo a pozzo per scendere nella camera».
    Secondo gli studiosi, nell’Etruria ci sono centinaia di migliaia di tombe. L’arco temporale degli etruschi va dall'ottavo al secondo secolo avanti Cristo e considerando che ognuno dei principali centri, Tarquinia, Cerveteri, Vulci, Veio, aveva una popolazione all’incirca di 25 mila abitanti e che in ogni secolo si sono avvicendate quattro generazioni, si ha un totale di settecentomila individui in 700 anni per ogni località. Un numero imponente, anche tenendo conto che le tombe erano per lo più a carattere familiare e quindi ospitano più di un defunto.