Anselmina
chiede l’elemosina di sera, un paio d’ore. Di giorno no perché
ha paura della polizia. Di solito sosta a cinquanta metri
dall’ingresso di un cinema, s’appoggia al marmo, tra le due
vetrine di un negozio di tessuti. È sui settant’anni. Piccola,
magra, con le spalle un po’ curve, sempre vestita di nero. Ai
passanti non chiede nulla, si limita a guardarli con i suoi occhi
azzurri che dicono bontà e sofferenza e chiedono perdono. La mano
destra sbuca timidamente da sotto lo scialle ed è una piccola
macchia chiara in mezzo al nero delle vesti. Quando il passante è
davanti a lei, Anselmina ha un lievissimo moto: solleva appena la
testa e preme le spalle contro il marmo e la mano, per seguire il
busto, si alza di un centimetro, non di più. Con quel movimento lei
sembra stagliarsi nel marmo chiaro al quale si appoggia. È una
figura d’altro tempo, dell’Ottocento.
Vive
sola, in una soffitta di una casa decorosa. È vedova da sedici anni,
di un sarto che aveva un laboratorio ben avviato. Alla sua morte è
andata a lavorare a ore, per qualche anno, poi si è ammalata d’asma
e ha dovuto smettere. Ogni tanto riesce a farsi ricoverare in
ospedale e ci sta il più che può. Ha un figlio, Michele, che ha
trenta anni e che è la sua croce. Non ha voglia di lavorare: in un
posto ci sta un mese e poi si fa cacciare per le troppe assenze. Ed
è nelle mani di una donnaccia, che fa la vita. Anselmina non sa nemmeno dove abitino. Una
volta, dall’ospedale, era riuscita a fargli sapere che stava molto
male e qualche giorno dopo era andato a trovarla un amico di lui, con
due arance e tre caramelle. Se un passante rivolge la parola ad
Anselmina lei risponde con voce fievole e racconta le sue sventure.
Michele
vive quasi tutto il suo tempo all’osteria che è nella zona dove
lavora Argia, la sua compagna, con la quale vive e con la quale ha un
figlio, Rino, che ha fatto la terza, ma da due anni a scuola non ci
va. Loro due si alzano nel primo pomeriggio, vanno in motoretta a
mangiare all’osteria, poi lei incomincia a battere il marciapiede.
Il ragazzo dalle nove del matttino va in una piazza di parcheggio
dove ci sono altri ragazzi. Giocano, bisticciano, studiano gli
atteggiamenti migliori per preoccupare gli automobilisti e indurli a
dare buone mance.
Ma
da un po’ di tempo la giornata di Rino è cambiata: è entrato nel
giro della droga. Per lui, dalle dieci a mezzanotte, c’è il turno
tra la farmacia del corso e il cinema. È felice, fiero di sé,
perché sente che di lui c’è chi ha fiducia. Proprio contento di
essere così bravo.