martedì 28 luglio 2015

La poltrona

L'annuncio, nella rubrica "varie", parlava di alcuni mobili antichi che venivano venduti «causa trasferimento». Avevo bisogno di una poltrona, possibilmente del Settecento, da abbinare a una scrivania con ribalta di quell'epoca. Andai a vedere se trovavo qualcosa che mi potesse interessare.
La casa era vecchia, forse della metà dell'Ottocento, a due piani, con i muri sbrecciati, le ringhiere dei balconcini arrugginite. Il suo aspetto era miserevole ed appariva ancora più squallido per il contrastante accostamento con i due alti, nuovissimi edifici che le sorgevano ai lati. Un grande cartello affisso all'altezza del primo piano avvertiva che in quel luogo sarebbe sorto un palazzo con appartamenti lussuosi. La famiglia che aveva pubblicato l'inserzione abitava al secondo piano. Venne ad aprire una donna anziana, con la testa bianca, lo sguardo che passava al di sopra degli occhiali calati sul naso. «Venga, venga» disse, «abbiamo diverse cose da vendere. Ci tocca andar via di qui, la casa verrà abbattuta e noi ci trasferiamo in un alloggetto di appena due camere e cucina, mentre qui ne abbiamo quattro: dobbiamo disfarci di tante cose».
Eravamo nella cucina, mi guardai attorno, ma non c'era nulla che potesse considerarsi antico. Un uscio si aprì ed entrò una ragazza dall'aspetto fine, magra, pallida. «Ora le faccio vedere» disse la giovane intuendo il motivo della mia presenza e mi invitò a seguirla in una stanza accanto. «Ecco, vendiamo tutti questi mobili». Era una camera da pranzo stile Cinquecento, di legno tinto di nero, pesante non soltanto di quintali, ma soprattutto di ornamentazioni in rilievo; di quelle camere che facevano la gioia delle coppie di sposi nei primi anni del Novecento. Scossi la testa deluso. «Mi spiace» dissi, «ma non ho bisogno di questi mobili, sono solo imitazione dell'antico, e non saprei dove metterli». «Proviamo a guardare nelle altre stanze» disse la ragazza, «può darsi che trovi qualcosa che le possa interessare». In una camera c'era un letto matrimoniale di lamiera di ferro con decorazioni di vetrini colorati. Ancora scossi la testa e subito la ragazza e la madre mi sospinsero avanti nella terza stanza. Qui il mobilio era costituito da un salotto Luigi Filippo.
Non appena entrai, un giovane che era seduto in un angolo si alzò in piedi e mi fece una specie di inchino con un largo sorriso. Mi parve che il suo modo fosse strano, ma la mia attenzione fu subito distratta. Il giovane si era alzato proprio da una poltrona Settecento come io andavo cercando: di noce, con gambe e braccioli curvi e scannellati, la spalliera traforata, il sedile di paglia di granoturco intrecciata. La indicai con un dito e andai da quella parte con decisione. Il giovane si scansò, improvvisamente serio, quasi impaurito. «Questa» dissi, «posso comperarla». «Bene» risposero quasi in coro la madre e la figlia. «No, no» incominciò il giovane con occhi spalancati, l'espressione sconvolta. «Non si può, questa è la mia poltrona». «Tu non metterci il naso» replicò la madre, con un tono bonario, quasi scherzoso. Poi si voltò verso di me e si batté due volte la punta dell'indice sul lato della fronte. «Non ci faccia caso, è come un bambino, a volte gli piace fare i capricci».
«Allora» chiesi, «quanto volete?» «Ottocentomila» disse la ragazza, più col tono della domanda che dell'affermazione; era evidente che non aveva un'idea precisa del valore. Rimasi qualche momento in silenzio, cercavo di valutare la richiesta. Certo un antiquario non gliel'avrebbe pagata tanto, però nel suo negozio per la stessa poltrona avrebbe preteso almeno il doppio. Pensai che onestamente non era il caso di abbassare la cifra: chi vendeva era gente povera e la poltrona era quella che faceva al caso mio. «Come volete» dissi, e tolsi di tasca il portafogli per fare l'assegno. «No, no» riprese il giovane, «non si può, non si può». Venne verso di me protendendo una mano e cercò di farmi richiudere il portafogli. «Questa poltrona» disse, «vale dieci milioni, forse venti, chissà...» «Lei scherza» risposi: «provi ad offrirla a un antiquario e vedrà che...»
La madre mi interruppe per far tacere il figlio: «Adesso, Mario, stai buono, vai di là e lasciaci fare gli affari»; intanto lo prese per un braccio e lo tirò verso di sé. Io ne approfittai per incominciare a scrivere l'assegno: capivo che bisognava fare in fretta per evitare le complicazioni suscitate dal giovane. Presi in mano la poltrona, la sollevai per andarmene. «La lasci qui, per carità!» gridò Mario, facendo pressione sui braccioli fino a costringermi a posarla. Sua sorella lo richiamò con voce brusca. «Basta» disse, «dobbiamo pur venderla, nell'altra casa non sappiamo dove metterla». «Allora» disse il giovane con voce implorante afferrando la poltrona, «lasciate almeno che la porti giù io». «Sì» risposi, «cerchiamo soltanto di fare presto, perché ho fretta».
Incominciai ad indietreggiare per la stanza verso l'uscita tirandomi dietro la poltrona che Mario teneva appena sollevata da terra e cercava di trattenere verso di sé. Salutai le due donne, arrivai sul pianerottolo. Il giovane posò la poltrona, si appoggiò col petto sulla spalliera. «Me la lasci» disse. «Se me la lascia le dò due milioni». «No» risposi, «ne ho bisogno». «Gliene dò cinque di milioni». «No» ripetei, «non è una questione di denaro, l'ho comperata perché mi serve, non per rivenderla». Afferrai di nuovo la poltrona, la sollevai con forza nonostante la resistenza del giovane, e incominciai a scendere.
A fare la prima rampa di scale impiegammo almeno cinque minuti, io che tiravo verso il basso e lui verso l'alto. «L'ho sempre vista in casa mia» lamentava Mario «e adesso non la vedrò più. Lei chissà come la tratterà». «Bene, la tratterò benissimo, la farò lucidare, mi ci metterò a sedere con ogni cura, stia tranquillo. E poi non è un animale, la poltrona non se ne accorgerà nemmeno di avere cambiato casa». A metà della seconda rampa ci dovemmo fermare per lasciar passare un'inquilina. «Signora Clotilde» disse il giovane con le lacrime agli occhi, «mi portano via la poltrona». «Oh, povero Mario>> rispose lei con un tono tra la commiserazione e il divertimento e tirò diritto senza chiedere nulla. Era evidente che l'inquilina lo conosceva bene, sapeva che non bisognava dargli retta. Ma io non potevo continuare in quel modo, avrei perduto altri dieci minuti per scendere le altre due rampe di scale, pensai che dovevo proprio rinunciare all'affare.
Lasciai la presa della poltrona, risalii. La porta dell'alloggio era ancora accostata. Entrai, mi vennero incontro entrambe le donne. «Mario non se ne vuole assolutamente separare» dissi, «rinuncio all'acquisto, restituitemi l'assegno». «Ma lei scherzerà» rispose la ragazza con voce agitata e gli occhi spiritati. «Ormai l'affare è fatto, non si torna più indietro». «Per me» dissi, «va bene. Ma è per lui, poverino». La ragazza tirò su una spalla. «Non importa, lo lasci dire».
Ridiscesi, trovai il giovane fermo nello stesso punto in cui l'avevo lasciato, gli occhi fissi nel vuoto. Afferrai la poltrona, tirai con forza. «Ora non faccia storie» dissi con durezza, «devo andare». Scendemmo con una certa sveltezza, io sempre tirando verso il basso, lui verso l'alto. «No, no» continuava a lamentarsi lui e chiedeva: «Perché? Perché?» Arrivammo fuori. La mia auto era parcheggiata sotto un albero a pochi passi di distanza. Sul corso le automobili sfrecciavano veloci, l'aria era densa di suoni, rombi di motori e voci di operai in un vicino cantiere. Posai la poltrona a terra, di fianco all'auto, andai dietro ad aprire il bagagliaio, ne tolsi gli elastici per legarla al portapacchi montato sul tetto. Mario ne approfittò per sedersi. Lo tirai su quasi di peso, alzai la poltrona, la issai sul portapacchi, agganciai gli elastici per fissarla.
Ormai era fatta, potevo partire. Il giovane stava al mio fianco con lo sguardo basso, le braccia in abbandono, vinto, desolato. «Perché se la prende così?» chiesi, mettendogli una mano su una spalla. «In fin dei conti è un mobile, un oggetto senza nessuna importanza e poi viene a stare bene a casa mia». «Ma io l'ho sempre vista» disse a voce bassa, tremante; faticavo a capire le parole, per i rumori della strada. «Adesso lei la porta via e io non la vedrò più, la mia poltrona». Emise un lungo sospiro, le sue spalle si alzavano e si abbassavano con ampiezza di movimento. Il giovane chinò ancora la testa e si mise a piangere. Le lacrime incominciavano a scendergli lungo le guance, ne vidi due cadere a terra, nella polvere.
Mi staccai di un passo da lui, verso lo sportello, per salire. Ma allontanandomi mi parve di sentire, di capire ancora di più il suo dramma angoscioso. E mi prese, nel mezzo del petto, un senso di colpa. Per lui quella poltrona era parte del suo mondo, parte della sua giovinezza. Portandogliela via gli portavo via tutte queste cose. Immaginai di essere già sull'auto che se ne andava e di voltarmi indietro a guardarlo, lui piccolo, a testa china, con le braccia penzoloni, il cuore in tumulto, solo nella strada piena del frastuono del traffico dove nessuno nemmeno s'accorgeva della sua presenza. Bisognava che partissi e non mi voltassi indietro.


martedì 21 luglio 2015

Furbo lui

Di questa vita Mario Rapuzzi non ne può più. La notte sempre in questo dormitorio, in mezzo a tanti altri disgraziati come lui; di giorno a pulire vetri ai semafori, in giro per la collina a chiedere di fare il giardiniere, e anche nei negozi a stendere la mano. Spesso, sia di giorno che di notte, a pensare al suo sogno: una portineria, da custodire: scale da pulire, alloggio e stipendio assicurati, quello sarebbe vivere. Ma come si può fare ad uscire da questo gorgo in cui è caduto? Dopo la solita giornata inconcludente, la minestrina del dormitorio, dove si deve entrare entro le nove, ora in cui chiude e anche un minuto dopo non si entra. Poi, al mattino, alzarsi alle sei e mezzo perché alle sette, dopo la distribuzione del caffelatte, tutti devono uscire.
Pensa e ripensa, gli viene un’idea: attirare su di sé l’attenzione e impietosire le autorità; possibile che non dicano: “Vuole andare portinaio in un palazzo?” L’indomani mette in pratica la sua idea. Sono le nove di sera e la branda di Rapuzzi è vuota, lui è sul ponte di corso Regina e passeggia. Farà finta di volersi annegare. Ma bisogna aspettare che cali il traffico: salterà sul parapetto quando una macchina è in arrivo e chi guida ha il tempo per fermarsi e saltar giù per impedirgli di buttarsi. In una strada senza movimento, si siede sul gradino d’una porta. È l’ora in cui di solito prende sonno e si addormenta. Alle undici lo sveglia bruscamente pestandogli un piede uno che deve entrare nel portone. Come orario va proprio bene, così può fare quello che ha in mente.
Di nuovo sul ponte, il marciapiedi è deserto, il movimento di auto è diradato. Ecco, ne sta arrivando una. Rapuzzi prende le misure, quando la macchina gli è vicina salta sul muretto, ma non succede niente, il conducente non se n’è accorto. Lui scende, aspetta. Ne arriva un’altra e Rapuzzi ripete la manovra. Stavolta funziona a meraviglia: stridore di freni, l’uomo scende, lo agguanta, lo tira giù. Rapuzzi grida che vuole morire, vuole morire.
Venti minuti dopo è in questura, ci sono intorno a lui tre funzionari, lo fanno parlare. «Da quando mi sono rotto un braccio – dice inventandosi un infortunio – riesco a fare solo lavori leggeri, che non trovo. Mi hanno sfrattato, non ho casa, sono alla fame. Se potessi fare il custode in una portineria». I tre si scambiano qualche parola, poi uno va nella stanza accanto, si sente che parla. Sta dicendo che è un caso pietoso e bisogna intervenire. Meno male, pensa Rapuzzi, qualcosa succederà. Il funzionario ritorna, dice: «Stia tranquillo, cerchiamo di fare qualcosa per lei». Di là squilla il telefono. Il funzionario corre, parla: «Ma le dico che stava per suicidarsi». Silenzio, per alcuni minuti. Rapuzzi sta pensando che forse è arrivato il gran momento: il suo sogno si avvera. Ancora due minuti poi il funzionario ritorna: «Sono riuscito, ma che fatica. A quest’ora, apposta per lei, aprono il dormitorio. Potrà dormire in un buon letto».


martedì 14 luglio 2015

Al tortellino d'oro

Avevamo rilevato il bar quattro anni prima, già vecchio. Certe piastrelle del pavimento si muovevano sotto i piedi, il banco aveva il marmo crepato, la macchina del caffè espresso si guastava una volta la settimana. C'era proprio tutto da rifare. Per di più in quel periodo - era uno dei primi anni sessanta - Milano sembrava preda della frenesia del rinnovamento: si tinteggiavano le facciate delle case, si sostituivano gli arredi dei negozi. "Svendo tutto per rinnovo locali", si leggeva di qua e di là. Nella nostra strada tre case erano coperte dalle impalcature dei muratori e una era proprio la nostra, perché i condomini avevano deciso addirittura di rivestire la facciata con lastre di marmo fino all'altezza del primo piano; noi, Marilena e io, avevamo votato negativamente, ma la maggioranza aveva deciso di sì. E allora, visto che la casa si faceva bella, dovevamo cogliere l'occasione, buttare all'aria pavimento e bancone, rifare il bar. Ci volevano soldi, almeno tre milioni, che non avevamo, ma potevamo trovarli. E li trovammo, infatti, scrivendo al padrino di mia moglie, nella Bassa modenese, la terra nostra.
Fissati i preliminari per lettera, si doveva concludere l'accordo in un incontro che il nostro benefattore fissò di lunedì mattina, di buon'ora. Così partimmo la domenica pomeriggio, con la Seicento, presto perché avevamo pensato a un certo programma. Che era questo: andare a dormire in una locanda e, visto che eravamo in regime di economia, risparmiare i soldi della cena, ma al tempo stesso mangiare, e bene, in compagnia. Avevamo molti parenti e amici con buona tavola e il nostro passato al paese era denso di lieti incontri gastronomici: ogni occasione veniva presa a pretesto per una mangiata, non di rado gli inviti si accavallavano, qualcuno doveva essere rifiutato.
Ora, dunque, bastava saper creare le condizioni favorevoli e poi cogliere al volo un invito o anche soltanto una buona predisposizione dei nostri amici per farla volgere in una autentica proposta di stare a cena con loro. Dopo avere fissata la camera per la notte ci mettemmo in auto, fermi in una piazzetta, a passare in rassegna parentele e amicizie per decidere la prima mossa. Pensai a mio zio Amilcare: agricoltore, padre di otto figli, proprietario di una grande tenuta coltivata a cereali e a vigneti. La sua casa era sempre molto ospitale, piena di gente perché quattro dei figli erano sposati e tutti vivevano sotto lo stesso tetto, e spesso c'erano ospiti, parenti, braccianti, operai venuti per riparare qualcuna delle tante macchine agricole. La tavola era lunghissima, le donne sempre affaccendate a portar tegami, a friggere gnocco o a girare polenta. M'era rimasta impressa una cena, d'estate, al lume di lampade ad acetilene. Io ragazzino a fianco di mia madre, seduti a metà di quella lunghissima tavola stesa all'aperto, nell'aia che era fiancheggiata dall'argine del Panaro: la sponda altissima di terra che ci sovrastava e faceva apparire noi piccoli, ma eravamo tanti e molto chiassosi; sulla tavola una distesa di bottiglie, di piatti, di tegami; le donne che continuavano a portare gnocco e a versarlo caldo e fragrante nelle teglie già svuotate; di tanto in tanto uno schiocco di tappo di lambrusco; e, nel buio, tutt'intorno, le fosforescenze vaganti delle lucciole.
Adesso non era estate, ma autunno avanzato, certo non avremmo trovato la tavolata sull'aia, ma quella casa poteva ugualmente fare bene sperare. Decidemmo di puntare su zio Amilcare che, tra l'altro, non avevo più visto da quando ci eravamo trasferiti a Milano. Venti minuti di macchina ed eccoci nella grande aia, a fianco dell'argine che nel mio ricordo era molto alto e invece mi parve stranamente basso. Mentre scendevamo dalla Seicento uscì una delle mie cugine, ci venne incontro, ci tese la mano, ma senza sorriso. Apprendemmo subito perché: zio Amilcare era in clinica, già da un mese, colpito da un ictus, con la parte destra del corpo paralizzata. Ma stava recuperando, piano piano, c'era da sperare che potesse riacquistare quello che aveva perduto. Neanche la zia c'era, stava in clinica anche lei, a fargli compagnia. Dalla stalla venne un muggito, basso, pigro, come un lamento. Mi sentii pervadere dalla tristezza. Pronunciammo parole di rammarico, di speranza, di incoraggiamento e risalimmo in macchina.
E allora? «Allora» disse Marilena «andiamo da mia zia Marcellina, è sempre stata molto ospitale». Sì, ricordavo, a casa sua avevamo mangiato tante volte. Marcellina si vantava d'aver fatto la capocuoca in un albergo sulle Dolomiti, durante una stagione estiva, prima di sposarsi. Ma il marito le aveva poi imposto di abbandonare il lavoro, la voleva tutta per sé e per la casa. Lei, tuttavia, non perdeva occasione per ricordare quella sua abilità e il lavoro di prestigio svolto. Marcellina abitava in una casa rossa, all'ultimo piano, il quinto, senza ascensore. «Speriamo che non siano fuori» disse Marilena, «o per lo meno che sia a casa lei, se c'è ci invita di sicuro». Ci venne ad aprire lo zio. Rimase un attimo in silenzio per la sorpresa, pronunciò una esclamazione e ci tese la mano. «Venite, venite» disse poi, tirandoci dentro e spingendoci verso la sala che era quasi buia, con il televisore acceso. «Qui» disse indicando una grossa poltrona che era di spalle, «abbiamo una brutta novità». Dalla spalliera si sporse un viso di donna. Era Marcellina. Stava quasi sdraiata, con le gambe distese su due file di cuscini posati su un panchettino, la gamba destra era grossa e bianca, ingessata. «Marilena, Marilena» incominciò a dire la zia con voce lamentosa, «guarda cosa m'è successo: sono ruzzolata giù per le scale e mi sono rotta una gamba. Tutte a me capitano». E dopo una pausa: «Avete fatto proprio bene a venire, mi dispiace solo che non posso invitarvi a stare con noi. Ditemi, raccontatemi di voi».
Bisognava sbrigarci, erano già passate le sette, non c'era tempo da perdere, dovevamo tentare un'altra tavola. Pensammo ai Santarelli. Lui, Amleto, prima del nostro trasferimento a Milano, era stato mio socio in un commercio di bottiglie e di sugheri, poi le cose erano andate male e ognuno aveva cercato un'attività diversa. Eravamo rimasti in buona amicizia; l'ultima volta che ci eravamo incontrati Amleto aveva detto che alla nostra nuova venuta avremmo dovuto essere loro ospiti, altrimenti se ne sarebbero offesi.
Rapidamente ci andammo. Sotto l'androne udimmo la voce di lui per le scale e un momento dopo ce li trovammo davanti, marito e moglie, ben vestiti, lei con un mazzo di fiori in mano: «Che sorpresa! Ma come mai, così senza avvertire?» disse lui, e aggiunse: «Non possiamo nemmeno stare insieme, siamo invitati a cena, stiamo andando. Guai a voi se la prossima volta non ci informate per tempo».
«Si sta facendo tardi» disse Marilena con tono innervosito mentre risalivamo in macchina. «Possibile che non riusciamo a farci invitare da qualcuno?» Poi fece un gesto risolutivo con la mano: «Andiamo da Maria». «Quale Maria?» «Maria Buffagni, la mia collega di quand'ero all'anagrafe, ci volevamo un bene come sorelle, di tanto in tanto mi manda una cartolina». Andammo, venne ad aprire la madre, disse che la figlia era ancora fuori, ma non avrebbe tardato. Ci invitò in salotto, ci trattenne con qualche chiacchiera. Il tempo passava, ormai erano le otto, io e Marilena ci davamo occhiate di grande impazienza. Maria arrivò poco dopo, si poteva sperare bene. Abbracci, molte feste. «Rimarrete a cena con noi» disse con entusiasmo, ma sua madre intervenne rapida: «Saremmo liete di ospitarvi, ma sono colta alla sprovvista, avreste da lamentarvi della nostra tavola...» La figlia guardò la madre e poi noi con imbarazzo. Io non riuscii a controllarmi, mi alzai quasi di scatto. «Siamo passati solo per un saluto, adesso togliamo il disturbo».
Due minuti dopo eravamo già protesi verso l'ultimo tentativo: andavamo a trovare i Baldoni, gli ex padroni di casa. Brava gente, venivano sempre in casa nostra a vedere la televisione, quando loro ancora non avevano l'apparecchio. Li trovammo a tavola, loro due e tre dei quattro figli. Ci fecero sedere nella stessa sala da pranzo. «Immagino che a quest'ora avrete già cenato» disse la signora Baldoni. «Potevate venire prima, a cenare con noi: ci avreste fatto molto piacere». Né io né Marilena sapemmo dire una parola, non confermammo né smentimmo, eravamo sconfortati. Baldoni disse: «Bevete almeno un bicchiere di lambrusco» e subito versò il vino. Non fummo nemmeno capaci di rifiutare. Ma dopo poco mi sovvenne di dire: «Dobbiamo scappare, abbiamo un appuntamento alle nove».
Saluti rapidi. Uscimmo. Ma per far che, a quest'ora? Non c'era certo più da pensare ad un possibile invito. Eravamo vicini a una viuzza al fondo della quale c'era la trattoria "Al tortellino d'oro". Il nome veniva da un premio che quell'esercizio aveva avuto prima della guerra, quando godeva di una meritata fama; da anni la sua reputazione s'era rovesciata, i clienti dovevano essere ben poco esigenti. Ci guardammo, scuotemmo la testa. «Eh, sì» disse Marilena, «non ci resta proprio che il Tortellino d'oro».
Ci avviammo e dopo pochi passi ci imbattemmo in un vecchio alto, magro, un po' curvo. «Roberto» gridai. Si fermò, cercò di scrutarmi alla scarsa luce. Lo aiutai: «Sono Leandro, il figlio di Luigi, Giget, se lo ricorda? Lavoravate insieme in Belgio, in miniera». Mi riconobbe, si commosse. «Ah, sé, Giget, l’era propria ‘n amig». «Come va, Roberto?» Col capo fece cenno di no, e continuò a dondolarlo: era chiaro che le cose non andavano affatto bene. «A sun chè ca vag da ‘na coga che a la sira ogni tant l’am dà un piat ad mnestra».

Lo presi sottobraccio, ci avviammo verso la trattoria. «Stasera mangiamo insieme» dissi. Entrammo al Tortellino d'oro. C'erano solo due avventori. Ci sedemmo, all'oste ordinai: «Tre pastasciutte». Roberto mi fissava con occhi spalancati, gli tremava un poco il mento. 

martedì 7 luglio 2015

Doppio salvataggio

Stavo seduto su una panchina in riva al fiume. L'acqua correva impetuosa, gialla e alta per le insistenti piogge dei giorni precedenti. Alle mie spalle, nel parco, la gente si fermava a guardare la piena che trascinava a valle tronchi d'albero, rami, oggetti strani, indecifrabili. Splendeva un sole disteso e caldo che faceva risaltare il verde novello e tenero della collina che mi stava di fronte, oltre la riva opposta. Era pomeriggio e non avevo nulla da fare: guardavo il fiume, i colori della collina, ascoltavo le voci di meraviglia della gente, seguivo pensieri vaghi, poi riabbassavo gli occhi a leggere il giornale. Ma era una lettura sbiadita, dopo un po' rialzavo lo sguardo al fiume, alla collina, al colore caldo che pioveva dal cielo. Era bello quell'inizio di primavera e l'acqua torbida e irruente non riusciva a turbarlo, anzi, quel vorticoso andare della corrente lo si sentiva come una liberazione, un sollievo, uno sfogo definitivo dell'inverno.
Un uomo avanzava sul marciapiedi, alla mia destra. Era vestito sciattamente: i pantaloni che facevano le bozze davanti al ginocchio, una giacchetta sporca e unta, con uno strappo a fianco di un bottone, la barba che gli scuriva il volto, i capelli scomposti. Poteva avere trentacinque anni. Procedeva con lo sguardo basso; davanti alla panchina si fermò come soprappensiero, si voltò un attimo a guardarmi, poi si sedette al mio fianco. Nell'insieme aveva un aspetto desolante e io abbassai gli occhi al giornale. «Che piena!» disse. «Uno che fosse là in mezzo avrebbe già risolto ogni suo problema».
Istintivamente mi ritrassi, appoggiai le spalle allo schienale: raggelavo all'idea di potermi trovare in mezzo al fiume. Guardai in faccia l'uomo e provai una sensazione di tristezza. «Sarebbe spaventoso» risposi. Lui si sfregava l'ovale del mento con forza, per vincere la resistenza della barba; intanto dondolava la testa e guardava fissamente l'acqua. I capelli gli ballonzolavano sulla fronte, sembravano sottolineare quel suo gesto di negazione, di sconforto. «Spaventoso? No! Sarebbe un momento solo, poi l'acqua ti è sopra, ti copre, e nemmeno sembra che ti abbia inghiottito». Emise un lungo sospiro, come fosse al colmo della sopportazione. Io mi sentii sgomento. «Ma perché parla così?» chiesi con voce tenue, timida. Era quasi una preghiera che gli rivolgevo perché non mi guastasse le belle sensazioni di primavera, la gaiezza del mio animo. «Parlerebbe così anche lei» disse l'uomo, «se fosse al posto mio. Non una, dico, non una me ne va bene. Prima la moglie mi abbandona per andare a fare la bella vita in un'altra città; poi perdo il posto per un vigliacco che mi accusa di una colpa che non ho commesso; mi danno lo sfratto e devo rifugiarmi in una baracca alla periferia; trovo da lavorare come manovale, ma adesso la ditta fallisce e per di più le guardie vogliono abbattermi la baracca».
Tornò ad emettere un altro sospiro, lungo, pesante. Cercavo qualche parola di incoraggiamento, ma non ne trovavo. I miei pensieri non si fermavano, sembravano trascinati via dall'acqua melmosa e turbolenta che mi passava davanti e che non potevo evitare di guardare. Ora, soltanto ora, notavo anche che, così andandosene, l'acqua mugghiava: s'alzava da quella distesa giallastra una fascia sonora, si allargava, intuivo che passava sopra di me, si stendeva sul parco e, dall'altra parte, si aggrappava alle pendici della collina.
Alla nostra destra, cento metri più in là, c'era un ponte e il parapetto era punteggiato di teste: altra gente che guardava lo spettacolo del fiume. Eppure a me pareva di essere solo, solo con quell'uomo che sbuffava e si agitava e auspicava di essere sepolto dall'acqua melmosa. Avevo improvvisamente paura: collegavo i suoi gesti e le sue parole, il suo aspetto, la luce del suo sguardo e capivo che era deciso a fare quello che aveva in mente. "Adesso si butta nell'acqua", pensavo, "lo vedo scomparire nei gorghi e io non so nemmeno nuotare".
Avrei voluto alzarmi e andar via, lontano dalla vista del fiume, dalla vista di quello che sarebbe accaduto, ma non osavo muovermi dal mio posto, pensavo che all'accenno di andarmene l'uomo si sarebbe gettato in avanti. Rimanevo immobile per ritardare tutto questo. Alzavo lo sguardo alla collina con la speranza di avere conforto dal sole, dal verde, dall'atmosfera di primavera, ma ora non trovavo nulla di ciò, c'era soltanto l'onda sonora su ogni cosa, come un velo visivo, cupo.
Non potevo resistere, cercai di spezzare quell'angoscia, dissi: «Coraggio, non deve disperare, sono difficoltà che si superano». «No, no», disse l'uomo con una voce pesante, rauca, nella quale c'era tutta l'essenza di quella negazione. «Non c'è più speranza per me. Mi guardi: ma le pare che possa riprendermi?» I suoi occhi accesi, smarriti mi mettevano ancora più paura. Mi chiedevo perché mai ero venuto a cacciarmi al cospetto di quel dramma, testimone di un gesto disperato, estremo, che sentivo imminente, ma che non potevo evitare. «Si calmi» mormorai con un filo di voce.
In quell'attimo udimmo alla nostra destra, dal ponte, un grido lungo, lacerante. Ci alzammo di scatto e ci volgemmo appena in tempo per vedere un uomo precipitare nel fiume. Cadde vicino a uno dei pilastri e scomparve subito alla nostra vista; intanto il grido si udiva ancora acutissimo. Veniva da sopra il ponte: era una donna, la si vedeva agitare le braccia nere contro il cielo azzurro. Ora gridava: «Aiuto, salvatelo». C'era una grande animazione intorno a noi: sul ponte, la gente guardava nel fiume, taluni si spostavano rapidamente da un punto all'altro; dietro a noi, nel parco, c'era altra gente ansiosa. «Non si vede più»; «È là»; «No, è un tronco d'albero» gridavano le voci.
L'uomo stava in quel momento riemergendo a metà dello specchio d'acqua che ci divideva dal ponte; si vedevano la testa e un braccio, la corrente lo trascinava via a forza. «Salvatelo», gridava la donna dal ponte. La gente si agitava, vociava, ma nessuno si decideva ad affrontare il fiume. La mia ansia di prima si era sfogata in tremito. Mi pareva che le gambe non potessero più reggermi. L'uomo nell'acqua scomparve di nuovo, succhiato da un mulinello. Colui che mi stava al fianco gridò: «Eccolo, eccolo», e con uno scatto si levò la giacca, si chinò a togliersi le scarpe di forza, senza slacciarle, e si tuffò. La sua giacca sporca, unta, strappata, era ai miei piedi.
Il nuotatore vinceva la corrente con larghe e vigorose bracciate, si portava verso il centro del fiume. «Più a sinistra, più a sinistra» diceva una voce dietro di me. Il suicida infatti stava avanzando rapidamente. L'uomo che si era buttato per salvarlo deviò, un momento dopo gli fu alle spalle, appena in tempo per afferrarlo per i capelli. Continuò ad avanzare con un braccio solo, faticosamente, tenendo l'aspirante suicida lontano da sé, a fior d'acqua. «Ce la fa», diceva la gente, «lo salva».
Ora tutti si stavano spostando verso l'altra riva, per scendere nel punto dove il salvatore sarebbe approdato con l'uomo che si era buttato. Correvano quelli che erano sul posto, correvano verso il ponte quelli che erano nel parco. Io mi sentivo sfinito. Vidi l'uomo raggiungere la riva opposta, trascinare sull'erba il corpo inanimato dell'altro. Intanto arrivavano le prime persone dal ponte, incominciavano a praticare all'annegato la respirazione artificiale. Forse si sarebbe salvato, forse no. Non potevo più resistere oltre vicino al fiume. Mi avviai per il parco e mi allontanai.