Carmela Verzi è sui 45
anni ma ne dimostra di più. I capelli bianchi che spuntano con
due ciuffi laterali sotto il fazzoletto nero, il sottomento gonfio e
flaccido, gli occhi bordati di rosso per una congiuntivite cronica la
fanno più che cinquantenne. Una di queste sue condizioni, gli occhi
rossi, è un attrezzo del suo mestiere, in definitiva una fortuna.
Abita nel «casone», una cadente costruzione nella parte
più vecchia della città. La sua famiglia assomiglia a molte altre
che abitano nello stesso stabile. Suo marito soffre di artrite,
almeno così dice, perciò non lavora, passa le sue giornate
all’osteria, torna la sera, sempre un po’ brillo, le chiede dei
soldi per l’indomani e se lei non glieli dà si arrabbia,
incomincia a menar calci alle gambe della tavola.
Mirco, l’unico figlio,
di 22 anni, avrà lavorato sì e no due anni, a partire dall’epoca
in cui ha finito le elementari. Fa l’idraulico, ma avrà già
cambiato dieci padroni. Lavora una settimana, al massimo quindici
giorni, poi non ci va più, dice che lo trattano male, che hanno
esigenze assurde, impossibili. Il fatto è che i padroni pretendono
che lavori e lui, invece, di lavorare non ne ha voglia. Anche se non
è occupato, passa il suo tempo fuori di casa, non si sa dove, torna
soltanto per mangiare, talvolta passa fuori anche la notte. Mirco ha
la motoretta, avuta non si sa come, forse rubata, e ha il problema
della benzina, quindi anche lui si rivolge a sua madre e se lei non
ha niente da dargli si infuria, bestemmia, dice che così non si può
più vivere.
Dunque è lei, Carmela,
che deve sopportare tutto il peso della famiglia. Nel «casone»
ci sono altre due situazioni analoghe e le donne hanno scelto la
soluzione marciapiede. Lei no, non si abbassa a tanto: lei ha la
fortuna della congiuntivite che le mantiene gli occhi rossi, è come
se avesse pianto fino a quel momento. E allora, eccolo il suo
mestiere. Ogni mattina, intorno alle nove, prende un tram o un
autobus verso una determinata zona della città, che varia di volta
in volta. Scende, si mette a camminare, si ferma, si appoggia a un
muro, si copre il viso con una mano e incomincia a singhiozzare. A
volte deve continuare parecchi minuti prima che qualcuno si fermi.
Finalmente c’è chi le tocca un braccio, «Signora, signora,
cosa le succede?». Lei lentamente si gira, abbassa la mano,
con l’altra si asciuga, scopre i suoi occhi rossi, incomincia a
parlare con voce ancora rotta da un ultimo singhiozzo. «Che
sventura! – incomincia a dire con la voce a tratti spezzata da
tumulti di pianto. — Mia figlia, che è vedova come me, è stata
portata all’ospedale ieri mattina e io devo dar da mangiare ai suoi
tre bambini, ma non so come fare e per giunta il padrone di casa ci
sfratta. Dio che disgrazia».
La gente si commuove, le
batte una mano sulla spalla, le allunga una monetina: perché non è
il mutilato che tende il cappello, qui si tratta di un caso grave, ci
sono di mezzo tre bambini, bisogna offrire una somma dignitosa.
Qualche volta Carmela si vede mettere in mano uno o due euro, un
giorno un signore le dato un biglietto da dieci. «Grazie,
grazie», singhiozza lei e poi riprende il cammino, gli occhi
divorati dal pianto, il dolore incorniciato nella veste nera.
All’angolo della strada gira, cammina ancora un po’ poi,
improvvisamente, si appoggia al muro, si copre il viso con una mano e
scoppia a piangere. «Che sventura!», dice poi, non
appena qualcuno le si accosta.
È un lavoro non facile,
faticoso, anche perché Carmela vi si dedica, tra il mattino e il
pomeriggio, almeno sei ore al giorno. E poi deve tenere ben conto
delle zone della città, in modo da non tornare nelle stesse strade,
se non dopo sei mesi. Ma Carmela lo fa con passione, ci si sente
portata. La pare quasi di essere una attrice. La sua, ormai, è una
missione.
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