domenica 10 maggio 2015

Strade sbagliate

La poetessa Elena Ellena era abbastanza nota, non tanto per la sua produzione artistica, quanto per il suo daffare per mantenersi in vista. Non mancava mai ad alcuna festa mondana cittadina e faceva di tutto per attirare su di sé l’attenzione dei fotografi con la speranza di veder pubblicata una sua fotografia su giornali o riviste. Quarantenne, era da anni l’amica di un pittore di buon nome, Antonio Berculli, che viveva separato dalla moglie. Nonostante il Berculli fosse di carattere riservato e cercasse di rifuggire da qualsiasi forma di pubblicità, l’Ellena non perdeva occasione di far chiasso anche intorno a lui, sempre con il fine di diffondere il proprio nome. Il suo primo libro di poesie – venticinque liriche di appena cinque versi – risaliva a quindici anni prima ed era tutto un grido di esuberanza, di ideali molto materialistici: credeva soltanto nelle gioie che poteva dare il denaro e nel disprezzo di tutte le convenzioni sociali. In una poesia rinnegava addirittura la sua famiglia troppo mite e troppo povera e la sua terra di montagna di beni avara e inutilmente bella.
La produzione successiva, sempre molto limitata, aveva portato pochi lumi chiarificatori sulla personalità artistica e sulla figura dell’Ellena. Talvolta la sua ispirazione artistica era ancora venuta da motivi di ribellione, ma più spesso era nata da elementi di pacatezza. Si poteva notare in lei un lento approdo alla vita normale, alle regole che anni prima aveva combattuto con slancio. Continuava ancora a frequentare feste e ritrovi, ma di rado era in compagnia di Berculli. Se si manteneva in vista era per abitudine, e nel suo comportamento ormai traspariva la stanchezza che lei stessa andava scoprendo. Poi era scomparsa, aveva cambiato città. Di tanto in tanto, ma molto raramente, usciva una sua lirica su qualche giornale di provincia. Erano versi tristi, di chi aveva perduto ogni speranza e si trovava davanti a un vuoto e a una solitudine che mettevano paura. Una poesia diceva: Addio è la mia ultima parola – Perduta, l’ansia della giovinezza – e i sogni e i canti. – Silenziosa crisalide in se stessa – l’anima si richiude.

* * *

Il mondo della signorina Carmen Gerlini si è ridotto a questa corsia dell’Istituto di Riposo. Lei occupa l’ultimo letto in fondo allo stanzone, di fianco all’altare. Al mattino la sveglia è sempre molto presto, d’inverno non ci si vede nemmeno, poi c’è la messa, la colazione, il riordino del letto. Chi è in grado di camminare può scendere fino al cortile, ma la Gerlini non ce la fa: i suoi 82 anni sono troppo pesanti, le hanno quasi irrigidito le gambe, le costa già fatica mettersi a sedere e tirarsi su. Quando ha finito di sistemare il letto si siede tra il suo e quello della vicina, che è inferma, e passa così le lunghe ore della giornata.
Ha i capelli bianchi e sempre scomposti, la Gerlini, e le spalle molto curve, la bocca incavata per via dei denti che sono pochi. Parla con la vicina quando questa non si lamenta per i suoi dolori. Gli argomenti sono sempre gli stessi: che è una pena stare al ricovero, che il mangiare è proprio cattivo, che se avessero avuto famiglia adesso non sarebbero in queste condizioni. Ma del suo passato la Gerlini non dice mai niente; le sarebbe anche difficile riordinare le idee, mettere nel giusto tempo gli episodi: sono passati tanti anni. Ne aveva 23 quando lasciò la casa per accompagnarsi con Antenore, quell’industriale famoso che per lei aveva lasciato la moglie. Poteva essere suo padre ma la trattava con grande generosità.
Però erano stati anni turbolenti: viaggi, liti, rappacificazioni, altre liti, poi lui la piantò e tornò con la moglie. E la gente quasi la sbeffeggiava dopo che si era data tante arie per la protezione dell’amico. Si era dovuta mettere a lavorare, poi aveva trovato un altro amante e via, di nuovo con lui, le liti e le rappacificazioni. È più facile per la Gerlini ricordare gli ultimi tempi. Cinque anni fa, quando il padrone della soffitta l’ha cacciata fuori perché non pagava l’affitto da mesi. Una donna s’è offerta di ospitarla in casa sua per qualche tempo, ma tre giorni dopo lei si è accorta che quella le aveva rubato l’unico oggetto prezioso che aveva, una collanina d’oro ricordo di sua madre. Per un mese è stata ospite del dormitorio pubblico, in mezzo alle mendicanti, senza sapere dove andare a mangiare, poi, finalmente, è potuta entrare qui, all’Istituto di Riposo.
Il pavimento della corsia è lucido, le lenzuola sono pulite, ma i vetri sono smerigliati fino all’altezza di due metri e non si può vedere fuori. Tutto il mondo finisce qui. Le suore passano leste, non si fermano mai, se non per lasciare la scodella con il brodo o il piatto con la pietanza. A volte la Gerlini non se la sente di mangiare questa roba. Le giornate sono lunghe, poi la luce diminuisce, ci sono da dire le preghiere, si mangia e ci si rimette a letto. Sempre così. La Gerlini vaga con la mente nel passato, cerca qualcuno cui attaccarsi, ma non c’è nessuno, sono morti tutti: i suoi familiari, Antenore e anche gli altri che vennero dopo. Ci deve essere, qui in città, un figlio di Antenore, ma quello è figlio di lui, se gli parlano della Gerlini non sa neanche chi sia.

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