Lorenzo Borla, agricoltore, ha
74 anni. È sempre stato un uomo di una tempra eccezionale. Da
ragazzo faceva il garzone presso un contadino. Ha imparato a
coltivare la terra facendosi venire grossi calli nelle mani,
alzandosi prima dell’alba, tornando dai campi quando già era buio.
A diciotto anni, quando s’è trovato un gruzzoletto di risparmi in
tasca, è andato al mercato delle bestie bovine e ha comperato un
vitello, che ha rivenduto la settimana successiva guadagnandoci
qualcosa. Da allora ha fatto il mercante di buoi. Aveva occhio: uno
sguardo e di quella bestia aveva già capito se prometteva bene o no.
A un certo punto s’è trovato con tre grossi poderi; e ancora si
alzava presto alla mattina per andare sui mercati. Non ha mai
accettato di indulgere alle comodità che gli offriva il denaro. La
tavola è sempre stata parca per tutti, e i figli, due maschi,
avevano tutto, ma solo l’indispensabile per la loro posizione di
studenti, non una briciola di qualcosa che lui considerava superfluo.
È rimasto vedovo. I due
figli, uno medico l’altro ingegnere, sono andati per la loro strada
e Borla si è ritirato su uno dei tre poderi per condurlo
direttamente con l’aiuto di braccianti. A settant’anni ha trovato
una vedova di quaranta e se ne è innamorato. «La sposo», ha detto
ai figli e loro l’hanno implorato di non farlo. Ma Borla, alto, di
spalle larghe, imponente, con il grosso bastone da vaccaro, ha
risposto che aveva già deciso e che in vita sua non è mai tornato
su una decisione già presa. In effetti in casa era sempre stato un
re, e non solo in casa: anche nell’ambiente dei mercati e nel
settore economico in generale era visto con grande rispetto e
considerazione. «Ti farai mettere i piedi in testa», hanno
insistito i figli e lui li ha cacciati di casa. Il giorno dopo è
andato da un notaio, ha intestato a ognuno dei due un podere e, dopo
aver firmato l’atto, ha detto ai due di non farsi più vedere da
lui.
Si è sposato. Il giorno delle
nozze ha fatto un grande banchetto al quale hanno partecipato
mercanti di bestiame di cinque paesi dei dintorni. Era sempre il
Borla di un tempo, tenuto nella più grande considerazione, uno solo
da ammirare. A tavola tutti ascoltavano quello che raccontava del
suo mondo, e c’era tanto da imparare. La moglie, piccola e tonda,
ascoltava incuriosita ma era evidente che di quegli argomenti capiva
poco, sorrideva, contenta. Lui era ancora il re; alle sue spalle,
posato al muro, era pronto il suo bastone da impugnare come uno
scettro.
Sono passati quattro anni. La
casa del terzo podere si sta trasformando. Gli operai rifanno i
pavimenti delle stanze con legni e marmi pregiati; hanno rifatto
l’unico bagno che c’era e ne hanno fatti altri due. La moglie di
Borla va e viene, dà ordini, esamina alcuni tipi di tendaggi per
scegliere quello della grande sala che si è creata abbattendo due
muri. Si dà un gran daffare anche una ragazzina, Ginetta, figlia
della sposa. Dice: «Di questa casa vogliamo fare una villa come da
questa parti non ce ne sono. Non posso mica dare delle feste in una
casa da villanacci come era questa». Borla sta seduto in cucina,
guarda e tace: su queste cose non sa cosa dire, non se ne intende. È
solo un po’ preoccupato: ha sentito parlare di una cosa che dovrà
essere abbattuta. Pensa: abbattuta vuol dire tirata giù? Ma che
cosa? Non sarà mica la stalla. Dio mio, ma cosa succede?
Si alza, prende il bastone, fa
qualche passo. È sempre dritto di schiena, ma s’è ingrassato,
di un grasso un po’ flaccido. Il suo sguardo sembra smorzato dalla
tristezza. Un muratore viene a chiedergli: «Le mattonelle azzurre
vanno con il bordo in alto?». Borla lo guarda stupito, come se quel
linguaggio fosse di un altro mondo. Fa un gesto con la mano per dire
che non sa niente. Esce dalla cucina, nel corridoio c’è un via vai
di garzoni che portano scatole di mattonelle. Passa anche sua moglie.
«E togliti di mezzo – gli dice – non vedi che intralci il
passaggio?». Borla va fuori, si va a sedere su una panca di fianco
alla stalla. Si sente stanco, non s’è mai sentito così stanco.
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