martedì 28 luglio 2015

La poltrona

L'annuncio, nella rubrica "varie", parlava di alcuni mobili antichi che venivano venduti «causa trasferimento». Avevo bisogno di una poltrona, possibilmente del Settecento, da abbinare a una scrivania con ribalta di quell'epoca. Andai a vedere se trovavo qualcosa che mi potesse interessare.
La casa era vecchia, forse della metà dell'Ottocento, a due piani, con i muri sbrecciati, le ringhiere dei balconcini arrugginite. Il suo aspetto era miserevole ed appariva ancora più squallido per il contrastante accostamento con i due alti, nuovissimi edifici che le sorgevano ai lati. Un grande cartello affisso all'altezza del primo piano avvertiva che in quel luogo sarebbe sorto un palazzo con appartamenti lussuosi. La famiglia che aveva pubblicato l'inserzione abitava al secondo piano. Venne ad aprire una donna anziana, con la testa bianca, lo sguardo che passava al di sopra degli occhiali calati sul naso. «Venga, venga» disse, «abbiamo diverse cose da vendere. Ci tocca andar via di qui, la casa verrà abbattuta e noi ci trasferiamo in un alloggetto di appena due camere e cucina, mentre qui ne abbiamo quattro: dobbiamo disfarci di tante cose».
Eravamo nella cucina, mi guardai attorno, ma non c'era nulla che potesse considerarsi antico. Un uscio si aprì ed entrò una ragazza dall'aspetto fine, magra, pallida. «Ora le faccio vedere» disse la giovane intuendo il motivo della mia presenza e mi invitò a seguirla in una stanza accanto. «Ecco, vendiamo tutti questi mobili». Era una camera da pranzo stile Cinquecento, di legno tinto di nero, pesante non soltanto di quintali, ma soprattutto di ornamentazioni in rilievo; di quelle camere che facevano la gioia delle coppie di sposi nei primi anni del Novecento. Scossi la testa deluso. «Mi spiace» dissi, «ma non ho bisogno di questi mobili, sono solo imitazione dell'antico, e non saprei dove metterli». «Proviamo a guardare nelle altre stanze» disse la ragazza, «può darsi che trovi qualcosa che le possa interessare». In una camera c'era un letto matrimoniale di lamiera di ferro con decorazioni di vetrini colorati. Ancora scossi la testa e subito la ragazza e la madre mi sospinsero avanti nella terza stanza. Qui il mobilio era costituito da un salotto Luigi Filippo.
Non appena entrai, un giovane che era seduto in un angolo si alzò in piedi e mi fece una specie di inchino con un largo sorriso. Mi parve che il suo modo fosse strano, ma la mia attenzione fu subito distratta. Il giovane si era alzato proprio da una poltrona Settecento come io andavo cercando: di noce, con gambe e braccioli curvi e scannellati, la spalliera traforata, il sedile di paglia di granoturco intrecciata. La indicai con un dito e andai da quella parte con decisione. Il giovane si scansò, improvvisamente serio, quasi impaurito. «Questa» dissi, «posso comperarla». «Bene» risposero quasi in coro la madre e la figlia. «No, no» incominciò il giovane con occhi spalancati, l'espressione sconvolta. «Non si può, questa è la mia poltrona». «Tu non metterci il naso» replicò la madre, con un tono bonario, quasi scherzoso. Poi si voltò verso di me e si batté due volte la punta dell'indice sul lato della fronte. «Non ci faccia caso, è come un bambino, a volte gli piace fare i capricci».
«Allora» chiesi, «quanto volete?» «Ottocentomila» disse la ragazza, più col tono della domanda che dell'affermazione; era evidente che non aveva un'idea precisa del valore. Rimasi qualche momento in silenzio, cercavo di valutare la richiesta. Certo un antiquario non gliel'avrebbe pagata tanto, però nel suo negozio per la stessa poltrona avrebbe preteso almeno il doppio. Pensai che onestamente non era il caso di abbassare la cifra: chi vendeva era gente povera e la poltrona era quella che faceva al caso mio. «Come volete» dissi, e tolsi di tasca il portafogli per fare l'assegno. «No, no» riprese il giovane, «non si può, non si può». Venne verso di me protendendo una mano e cercò di farmi richiudere il portafogli. «Questa poltrona» disse, «vale dieci milioni, forse venti, chissà...» «Lei scherza» risposi: «provi ad offrirla a un antiquario e vedrà che...»
La madre mi interruppe per far tacere il figlio: «Adesso, Mario, stai buono, vai di là e lasciaci fare gli affari»; intanto lo prese per un braccio e lo tirò verso di sé. Io ne approfittai per incominciare a scrivere l'assegno: capivo che bisognava fare in fretta per evitare le complicazioni suscitate dal giovane. Presi in mano la poltrona, la sollevai per andarmene. «La lasci qui, per carità!» gridò Mario, facendo pressione sui braccioli fino a costringermi a posarla. Sua sorella lo richiamò con voce brusca. «Basta» disse, «dobbiamo pur venderla, nell'altra casa non sappiamo dove metterla». «Allora» disse il giovane con voce implorante afferrando la poltrona, «lasciate almeno che la porti giù io». «Sì» risposi, «cerchiamo soltanto di fare presto, perché ho fretta».
Incominciai ad indietreggiare per la stanza verso l'uscita tirandomi dietro la poltrona che Mario teneva appena sollevata da terra e cercava di trattenere verso di sé. Salutai le due donne, arrivai sul pianerottolo. Il giovane posò la poltrona, si appoggiò col petto sulla spalliera. «Me la lasci» disse. «Se me la lascia le dò due milioni». «No» risposi, «ne ho bisogno». «Gliene dò cinque di milioni». «No» ripetei, «non è una questione di denaro, l'ho comperata perché mi serve, non per rivenderla». Afferrai di nuovo la poltrona, la sollevai con forza nonostante la resistenza del giovane, e incominciai a scendere.
A fare la prima rampa di scale impiegammo almeno cinque minuti, io che tiravo verso il basso e lui verso l'alto. «L'ho sempre vista in casa mia» lamentava Mario «e adesso non la vedrò più. Lei chissà come la tratterà». «Bene, la tratterò benissimo, la farò lucidare, mi ci metterò a sedere con ogni cura, stia tranquillo. E poi non è un animale, la poltrona non se ne accorgerà nemmeno di avere cambiato casa». A metà della seconda rampa ci dovemmo fermare per lasciar passare un'inquilina. «Signora Clotilde» disse il giovane con le lacrime agli occhi, «mi portano via la poltrona». «Oh, povero Mario>> rispose lei con un tono tra la commiserazione e il divertimento e tirò diritto senza chiedere nulla. Era evidente che l'inquilina lo conosceva bene, sapeva che non bisognava dargli retta. Ma io non potevo continuare in quel modo, avrei perduto altri dieci minuti per scendere le altre due rampe di scale, pensai che dovevo proprio rinunciare all'affare.
Lasciai la presa della poltrona, risalii. La porta dell'alloggio era ancora accostata. Entrai, mi vennero incontro entrambe le donne. «Mario non se ne vuole assolutamente separare» dissi, «rinuncio all'acquisto, restituitemi l'assegno». «Ma lei scherzerà» rispose la ragazza con voce agitata e gli occhi spiritati. «Ormai l'affare è fatto, non si torna più indietro». «Per me» dissi, «va bene. Ma è per lui, poverino». La ragazza tirò su una spalla. «Non importa, lo lasci dire».
Ridiscesi, trovai il giovane fermo nello stesso punto in cui l'avevo lasciato, gli occhi fissi nel vuoto. Afferrai la poltrona, tirai con forza. «Ora non faccia storie» dissi con durezza, «devo andare». Scendemmo con una certa sveltezza, io sempre tirando verso il basso, lui verso l'alto. «No, no» continuava a lamentarsi lui e chiedeva: «Perché? Perché?» Arrivammo fuori. La mia auto era parcheggiata sotto un albero a pochi passi di distanza. Sul corso le automobili sfrecciavano veloci, l'aria era densa di suoni, rombi di motori e voci di operai in un vicino cantiere. Posai la poltrona a terra, di fianco all'auto, andai dietro ad aprire il bagagliaio, ne tolsi gli elastici per legarla al portapacchi montato sul tetto. Mario ne approfittò per sedersi. Lo tirai su quasi di peso, alzai la poltrona, la issai sul portapacchi, agganciai gli elastici per fissarla.
Ormai era fatta, potevo partire. Il giovane stava al mio fianco con lo sguardo basso, le braccia in abbandono, vinto, desolato. «Perché se la prende così?» chiesi, mettendogli una mano su una spalla. «In fin dei conti è un mobile, un oggetto senza nessuna importanza e poi viene a stare bene a casa mia». «Ma io l'ho sempre vista» disse a voce bassa, tremante; faticavo a capire le parole, per i rumori della strada. «Adesso lei la porta via e io non la vedrò più, la mia poltrona». Emise un lungo sospiro, le sue spalle si alzavano e si abbassavano con ampiezza di movimento. Il giovane chinò ancora la testa e si mise a piangere. Le lacrime incominciavano a scendergli lungo le guance, ne vidi due cadere a terra, nella polvere.
Mi staccai di un passo da lui, verso lo sportello, per salire. Ma allontanandomi mi parve di sentire, di capire ancora di più il suo dramma angoscioso. E mi prese, nel mezzo del petto, un senso di colpa. Per lui quella poltrona era parte del suo mondo, parte della sua giovinezza. Portandogliela via gli portavo via tutte queste cose. Immaginai di essere già sull'auto che se ne andava e di voltarmi indietro a guardarlo, lui piccolo, a testa china, con le braccia penzoloni, il cuore in tumulto, solo nella strada piena del frastuono del traffico dove nessuno nemmeno s'accorgeva della sua presenza. Bisognava che partissi e non mi voltassi indietro.


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