martedì 7 luglio 2015

Doppio salvataggio

Stavo seduto su una panchina in riva al fiume. L'acqua correva impetuosa, gialla e alta per le insistenti piogge dei giorni precedenti. Alle mie spalle, nel parco, la gente si fermava a guardare la piena che trascinava a valle tronchi d'albero, rami, oggetti strani, indecifrabili. Splendeva un sole disteso e caldo che faceva risaltare il verde novello e tenero della collina che mi stava di fronte, oltre la riva opposta. Era pomeriggio e non avevo nulla da fare: guardavo il fiume, i colori della collina, ascoltavo le voci di meraviglia della gente, seguivo pensieri vaghi, poi riabbassavo gli occhi a leggere il giornale. Ma era una lettura sbiadita, dopo un po' rialzavo lo sguardo al fiume, alla collina, al colore caldo che pioveva dal cielo. Era bello quell'inizio di primavera e l'acqua torbida e irruente non riusciva a turbarlo, anzi, quel vorticoso andare della corrente lo si sentiva come una liberazione, un sollievo, uno sfogo definitivo dell'inverno.
Un uomo avanzava sul marciapiedi, alla mia destra. Era vestito sciattamente: i pantaloni che facevano le bozze davanti al ginocchio, una giacchetta sporca e unta, con uno strappo a fianco di un bottone, la barba che gli scuriva il volto, i capelli scomposti. Poteva avere trentacinque anni. Procedeva con lo sguardo basso; davanti alla panchina si fermò come soprappensiero, si voltò un attimo a guardarmi, poi si sedette al mio fianco. Nell'insieme aveva un aspetto desolante e io abbassai gli occhi al giornale. «Che piena!» disse. «Uno che fosse là in mezzo avrebbe già risolto ogni suo problema».
Istintivamente mi ritrassi, appoggiai le spalle allo schienale: raggelavo all'idea di potermi trovare in mezzo al fiume. Guardai in faccia l'uomo e provai una sensazione di tristezza. «Sarebbe spaventoso» risposi. Lui si sfregava l'ovale del mento con forza, per vincere la resistenza della barba; intanto dondolava la testa e guardava fissamente l'acqua. I capelli gli ballonzolavano sulla fronte, sembravano sottolineare quel suo gesto di negazione, di sconforto. «Spaventoso? No! Sarebbe un momento solo, poi l'acqua ti è sopra, ti copre, e nemmeno sembra che ti abbia inghiottito». Emise un lungo sospiro, come fosse al colmo della sopportazione. Io mi sentii sgomento. «Ma perché parla così?» chiesi con voce tenue, timida. Era quasi una preghiera che gli rivolgevo perché non mi guastasse le belle sensazioni di primavera, la gaiezza del mio animo. «Parlerebbe così anche lei» disse l'uomo, «se fosse al posto mio. Non una, dico, non una me ne va bene. Prima la moglie mi abbandona per andare a fare la bella vita in un'altra città; poi perdo il posto per un vigliacco che mi accusa di una colpa che non ho commesso; mi danno lo sfratto e devo rifugiarmi in una baracca alla periferia; trovo da lavorare come manovale, ma adesso la ditta fallisce e per di più le guardie vogliono abbattermi la baracca».
Tornò ad emettere un altro sospiro, lungo, pesante. Cercavo qualche parola di incoraggiamento, ma non ne trovavo. I miei pensieri non si fermavano, sembravano trascinati via dall'acqua melmosa e turbolenta che mi passava davanti e che non potevo evitare di guardare. Ora, soltanto ora, notavo anche che, così andandosene, l'acqua mugghiava: s'alzava da quella distesa giallastra una fascia sonora, si allargava, intuivo che passava sopra di me, si stendeva sul parco e, dall'altra parte, si aggrappava alle pendici della collina.
Alla nostra destra, cento metri più in là, c'era un ponte e il parapetto era punteggiato di teste: altra gente che guardava lo spettacolo del fiume. Eppure a me pareva di essere solo, solo con quell'uomo che sbuffava e si agitava e auspicava di essere sepolto dall'acqua melmosa. Avevo improvvisamente paura: collegavo i suoi gesti e le sue parole, il suo aspetto, la luce del suo sguardo e capivo che era deciso a fare quello che aveva in mente. "Adesso si butta nell'acqua", pensavo, "lo vedo scomparire nei gorghi e io non so nemmeno nuotare".
Avrei voluto alzarmi e andar via, lontano dalla vista del fiume, dalla vista di quello che sarebbe accaduto, ma non osavo muovermi dal mio posto, pensavo che all'accenno di andarmene l'uomo si sarebbe gettato in avanti. Rimanevo immobile per ritardare tutto questo. Alzavo lo sguardo alla collina con la speranza di avere conforto dal sole, dal verde, dall'atmosfera di primavera, ma ora non trovavo nulla di ciò, c'era soltanto l'onda sonora su ogni cosa, come un velo visivo, cupo.
Non potevo resistere, cercai di spezzare quell'angoscia, dissi: «Coraggio, non deve disperare, sono difficoltà che si superano». «No, no», disse l'uomo con una voce pesante, rauca, nella quale c'era tutta l'essenza di quella negazione. «Non c'è più speranza per me. Mi guardi: ma le pare che possa riprendermi?» I suoi occhi accesi, smarriti mi mettevano ancora più paura. Mi chiedevo perché mai ero venuto a cacciarmi al cospetto di quel dramma, testimone di un gesto disperato, estremo, che sentivo imminente, ma che non potevo evitare. «Si calmi» mormorai con un filo di voce.
In quell'attimo udimmo alla nostra destra, dal ponte, un grido lungo, lacerante. Ci alzammo di scatto e ci volgemmo appena in tempo per vedere un uomo precipitare nel fiume. Cadde vicino a uno dei pilastri e scomparve subito alla nostra vista; intanto il grido si udiva ancora acutissimo. Veniva da sopra il ponte: era una donna, la si vedeva agitare le braccia nere contro il cielo azzurro. Ora gridava: «Aiuto, salvatelo». C'era una grande animazione intorno a noi: sul ponte, la gente guardava nel fiume, taluni si spostavano rapidamente da un punto all'altro; dietro a noi, nel parco, c'era altra gente ansiosa. «Non si vede più»; «È là»; «No, è un tronco d'albero» gridavano le voci.
L'uomo stava in quel momento riemergendo a metà dello specchio d'acqua che ci divideva dal ponte; si vedevano la testa e un braccio, la corrente lo trascinava via a forza. «Salvatelo», gridava la donna dal ponte. La gente si agitava, vociava, ma nessuno si decideva ad affrontare il fiume. La mia ansia di prima si era sfogata in tremito. Mi pareva che le gambe non potessero più reggermi. L'uomo nell'acqua scomparve di nuovo, succhiato da un mulinello. Colui che mi stava al fianco gridò: «Eccolo, eccolo», e con uno scatto si levò la giacca, si chinò a togliersi le scarpe di forza, senza slacciarle, e si tuffò. La sua giacca sporca, unta, strappata, era ai miei piedi.
Il nuotatore vinceva la corrente con larghe e vigorose bracciate, si portava verso il centro del fiume. «Più a sinistra, più a sinistra» diceva una voce dietro di me. Il suicida infatti stava avanzando rapidamente. L'uomo che si era buttato per salvarlo deviò, un momento dopo gli fu alle spalle, appena in tempo per afferrarlo per i capelli. Continuò ad avanzare con un braccio solo, faticosamente, tenendo l'aspirante suicida lontano da sé, a fior d'acqua. «Ce la fa», diceva la gente, «lo salva».
Ora tutti si stavano spostando verso l'altra riva, per scendere nel punto dove il salvatore sarebbe approdato con l'uomo che si era buttato. Correvano quelli che erano sul posto, correvano verso il ponte quelli che erano nel parco. Io mi sentivo sfinito. Vidi l'uomo raggiungere la riva opposta, trascinare sull'erba il corpo inanimato dell'altro. Intanto arrivavano le prime persone dal ponte, incominciavano a praticare all'annegato la respirazione artificiale. Forse si sarebbe salvato, forse no. Non potevo più resistere oltre vicino al fiume. Mi avviai per il parco e mi allontanai.


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