Stavo seduto su una
panchina in riva al fiume. L'acqua correva impetuosa, gialla e alta
per le insistenti piogge dei giorni precedenti. Alle mie spalle, nel
parco, la gente si fermava a guardare la piena che trascinava a valle
tronchi d'albero, rami, oggetti strani, indecifrabili. Splendeva un
sole disteso e caldo che faceva risaltare il verde novello e tenero
della collina che mi stava di fronte, oltre la riva opposta. Era
pomeriggio e non avevo nulla da fare: guardavo il fiume, i colori
della collina, ascoltavo le voci di meraviglia della gente, seguivo
pensieri vaghi, poi riabbassavo gli occhi a leggere il giornale. Ma
era una lettura sbiadita, dopo un po' rialzavo lo sguardo al fiume,
alla collina, al colore caldo che pioveva dal cielo. Era bello
quell'inizio di primavera e l'acqua torbida e irruente non riusciva a
turbarlo, anzi, quel vorticoso andare della corrente lo si sentiva
come una liberazione, un sollievo, uno sfogo definitivo dell'inverno.
Un uomo avanzava sul
marciapiedi, alla mia destra. Era vestito sciattamente: i pantaloni
che facevano le bozze davanti al ginocchio, una giacchetta sporca e
unta, con uno strappo a fianco di un bottone, la barba che gli
scuriva il volto, i capelli scomposti. Poteva avere trentacinque
anni. Procedeva con lo sguardo basso; davanti alla panchina si fermò
come soprappensiero, si voltò un attimo a guardarmi, poi si sedette
al mio fianco. Nell'insieme aveva un aspetto desolante e io abbassai
gli occhi al giornale. «Che piena!» disse. «Uno
che fosse là in mezzo avrebbe già risolto ogni suo problema».
Istintivamente mi
ritrassi, appoggiai le spalle allo schienale: raggelavo all'idea di
potermi trovare in mezzo al fiume. Guardai in faccia l'uomo e provai
una sensazione di tristezza. «Sarebbe spaventoso» risposi. Lui si sfregava l'ovale del mento con forza, per vincere la
resistenza della barba; intanto dondolava la testa e guardava
fissamente l'acqua. I capelli gli ballonzolavano sulla fronte,
sembravano sottolineare quel suo gesto di negazione, di sconforto. «Spaventoso? No! Sarebbe un momento
solo, poi l'acqua ti è sopra, ti copre, e nemmeno sembra che ti
abbia inghiottito». Emise un lungo sospiro, come fosse al
colmo della sopportazione. Io mi sentii sgomento. «Ma perché
parla così?» chiesi con voce tenue, timida. Era quasi una
preghiera che gli rivolgevo perché non mi guastasse le belle
sensazioni di primavera, la gaiezza del mio animo. «Parlerebbe
così anche lei» disse l'uomo, «se fosse al posto mio.
Non una, dico, non una me ne va bene. Prima la moglie mi abbandona
per andare a fare la bella vita in un'altra città; poi perdo il
posto per un vigliacco che mi accusa di una colpa che non ho
commesso; mi danno lo sfratto e devo rifugiarmi in una baracca alla
periferia; trovo da lavorare come manovale, ma adesso la ditta
fallisce e per di più le guardie vogliono abbattermi la baracca».
Tornò ad emettere un
altro sospiro, lungo, pesante. Cercavo qualche parola di
incoraggiamento, ma non ne trovavo. I miei pensieri non si fermavano,
sembravano trascinati via dall'acqua melmosa e turbolenta che mi
passava davanti e che non potevo evitare di guardare. Ora, soltanto
ora, notavo anche che, così andandosene, l'acqua mugghiava: s'alzava
da quella distesa giallastra una fascia sonora, si allargava, intuivo
che passava sopra di me, si stendeva sul parco e, dall'altra parte,
si aggrappava alle pendici della collina.
Alla nostra destra, cento
metri più in là, c'era un ponte e il parapetto era punteggiato di
teste: altra gente che guardava lo spettacolo del fiume. Eppure a me
pareva di essere solo, solo con quell'uomo che sbuffava e si agitava
e auspicava di essere sepolto dall'acqua melmosa. Avevo
improvvisamente paura: collegavo i suoi gesti e le sue parole, il suo
aspetto, la luce del suo sguardo e capivo che era deciso a fare
quello che aveva in mente. "Adesso si butta nell'acqua",
pensavo, "lo vedo scomparire nei gorghi e io non so nemmeno
nuotare".
Avrei voluto alzarmi e
andar via, lontano dalla vista del fiume, dalla vista di quello che
sarebbe accaduto, ma non osavo muovermi dal mio posto, pensavo che
all'accenno di andarmene l'uomo si sarebbe gettato in avanti.
Rimanevo immobile per ritardare tutto questo. Alzavo lo sguardo alla
collina con la speranza di avere conforto dal sole, dal verde,
dall'atmosfera di primavera, ma ora non trovavo nulla di ciò, c'era
soltanto l'onda sonora su ogni cosa, come un velo visivo, cupo.
Non potevo resistere,
cercai di spezzare quell'angoscia, dissi: «Coraggio, non deve
disperare, sono difficoltà che si superano». «No,
no», disse l'uomo con una voce pesante, rauca, nella quale
c'era tutta l'essenza di quella negazione. «Non c'è più
speranza per me. Mi guardi: ma le pare che possa riprendermi?» I suoi occhi accesi, smarriti mi mettevano ancora più paura. Mi
chiedevo perché mai ero venuto a cacciarmi al cospetto di quel
dramma, testimone di un gesto disperato, estremo, che sentivo
imminente, ma che non potevo evitare. «Si calmi» mormorai con un filo di voce.
In quell'attimo udimmo
alla nostra destra, dal ponte, un grido lungo, lacerante. Ci alzammo
di scatto e ci volgemmo appena in tempo per vedere un uomo
precipitare nel fiume. Cadde vicino a uno dei pilastri e scomparve
subito alla nostra vista; intanto il grido si udiva ancora
acutissimo. Veniva da sopra il ponte: era una donna, la si vedeva
agitare le braccia nere contro il cielo azzurro. Ora gridava: «Aiuto, salvatelo». C'era una grande animazione intorno
a noi: sul ponte, la gente guardava nel fiume, taluni si spostavano
rapidamente da un punto all'altro; dietro a noi, nel parco, c'era
altra gente ansiosa. «Non si vede più»; «È
là»; «No, è un tronco d'albero» gridavano le
voci.
L'uomo stava in quel
momento riemergendo a metà dello specchio d'acqua che ci divideva
dal ponte; si vedevano la testa e un braccio, la corrente lo
trascinava via a forza. «Salvatelo», gridava la donna
dal ponte. La gente si agitava, vociava, ma nessuno si decideva ad
affrontare il fiume. La mia ansia di prima si era sfogata in tremito.
Mi pareva che le gambe non potessero più reggermi. L'uomo nell'acqua
scomparve di nuovo, succhiato da un mulinello. Colui che mi stava al
fianco gridò: «Eccolo, eccolo», e con uno scatto si
levò la giacca, si chinò a togliersi le scarpe di forza, senza
slacciarle, e si tuffò. La sua giacca sporca, unta, strappata, era
ai miei piedi.
Il nuotatore vinceva la
corrente con larghe e vigorose bracciate, si portava verso il centro
del fiume. «Più a sinistra, più a sinistra» diceva
una voce dietro di me. Il suicida infatti stava avanzando
rapidamente. L'uomo che si era buttato per salvarlo deviò, un
momento dopo gli fu alle spalle, appena in tempo per afferrarlo per i
capelli. Continuò ad avanzare con un braccio solo, faticosamente,
tenendo l'aspirante suicida lontano da sé, a fior d'acqua. «Ce la
fa», diceva la gente, «lo salva».
Ora tutti si stavano
spostando verso l'altra riva, per scendere nel punto dove il
salvatore sarebbe approdato con l'uomo che si era buttato. Correvano
quelli che erano sul posto, correvano verso il ponte quelli che erano
nel parco. Io mi sentivo sfinito. Vidi l'uomo raggiungere la riva
opposta, trascinare sull'erba il corpo inanimato dell'altro. Intanto
arrivavano le prime persone dal ponte, incominciavano a praticare
all'annegato la respirazione artificiale. Forse si sarebbe salvato,
forse no. Non potevo più resistere oltre vicino al fiume. Mi avviai
per il parco e mi allontanai.
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