martedì 14 luglio 2015

Al tortellino d'oro

Avevamo rilevato il bar quattro anni prima, già vecchio. Certe piastrelle del pavimento si muovevano sotto i piedi, il banco aveva il marmo crepato, la macchina del caffè espresso si guastava una volta la settimana. C'era proprio tutto da rifare. Per di più in quel periodo - era uno dei primi anni sessanta - Milano sembrava preda della frenesia del rinnovamento: si tinteggiavano le facciate delle case, si sostituivano gli arredi dei negozi. "Svendo tutto per rinnovo locali", si leggeva di qua e di là. Nella nostra strada tre case erano coperte dalle impalcature dei muratori e una era proprio la nostra, perché i condomini avevano deciso addirittura di rivestire la facciata con lastre di marmo fino all'altezza del primo piano; noi, Marilena e io, avevamo votato negativamente, ma la maggioranza aveva deciso di sì. E allora, visto che la casa si faceva bella, dovevamo cogliere l'occasione, buttare all'aria pavimento e bancone, rifare il bar. Ci volevano soldi, almeno tre milioni, che non avevamo, ma potevamo trovarli. E li trovammo, infatti, scrivendo al padrino di mia moglie, nella Bassa modenese, la terra nostra.
Fissati i preliminari per lettera, si doveva concludere l'accordo in un incontro che il nostro benefattore fissò di lunedì mattina, di buon'ora. Così partimmo la domenica pomeriggio, con la Seicento, presto perché avevamo pensato a un certo programma. Che era questo: andare a dormire in una locanda e, visto che eravamo in regime di economia, risparmiare i soldi della cena, ma al tempo stesso mangiare, e bene, in compagnia. Avevamo molti parenti e amici con buona tavola e il nostro passato al paese era denso di lieti incontri gastronomici: ogni occasione veniva presa a pretesto per una mangiata, non di rado gli inviti si accavallavano, qualcuno doveva essere rifiutato.
Ora, dunque, bastava saper creare le condizioni favorevoli e poi cogliere al volo un invito o anche soltanto una buona predisposizione dei nostri amici per farla volgere in una autentica proposta di stare a cena con loro. Dopo avere fissata la camera per la notte ci mettemmo in auto, fermi in una piazzetta, a passare in rassegna parentele e amicizie per decidere la prima mossa. Pensai a mio zio Amilcare: agricoltore, padre di otto figli, proprietario di una grande tenuta coltivata a cereali e a vigneti. La sua casa era sempre molto ospitale, piena di gente perché quattro dei figli erano sposati e tutti vivevano sotto lo stesso tetto, e spesso c'erano ospiti, parenti, braccianti, operai venuti per riparare qualcuna delle tante macchine agricole. La tavola era lunghissima, le donne sempre affaccendate a portar tegami, a friggere gnocco o a girare polenta. M'era rimasta impressa una cena, d'estate, al lume di lampade ad acetilene. Io ragazzino a fianco di mia madre, seduti a metà di quella lunghissima tavola stesa all'aperto, nell'aia che era fiancheggiata dall'argine del Panaro: la sponda altissima di terra che ci sovrastava e faceva apparire noi piccoli, ma eravamo tanti e molto chiassosi; sulla tavola una distesa di bottiglie, di piatti, di tegami; le donne che continuavano a portare gnocco e a versarlo caldo e fragrante nelle teglie già svuotate; di tanto in tanto uno schiocco di tappo di lambrusco; e, nel buio, tutt'intorno, le fosforescenze vaganti delle lucciole.
Adesso non era estate, ma autunno avanzato, certo non avremmo trovato la tavolata sull'aia, ma quella casa poteva ugualmente fare bene sperare. Decidemmo di puntare su zio Amilcare che, tra l'altro, non avevo più visto da quando ci eravamo trasferiti a Milano. Venti minuti di macchina ed eccoci nella grande aia, a fianco dell'argine che nel mio ricordo era molto alto e invece mi parve stranamente basso. Mentre scendevamo dalla Seicento uscì una delle mie cugine, ci venne incontro, ci tese la mano, ma senza sorriso. Apprendemmo subito perché: zio Amilcare era in clinica, già da un mese, colpito da un ictus, con la parte destra del corpo paralizzata. Ma stava recuperando, piano piano, c'era da sperare che potesse riacquistare quello che aveva perduto. Neanche la zia c'era, stava in clinica anche lei, a fargli compagnia. Dalla stalla venne un muggito, basso, pigro, come un lamento. Mi sentii pervadere dalla tristezza. Pronunciammo parole di rammarico, di speranza, di incoraggiamento e risalimmo in macchina.
E allora? «Allora» disse Marilena «andiamo da mia zia Marcellina, è sempre stata molto ospitale». Sì, ricordavo, a casa sua avevamo mangiato tante volte. Marcellina si vantava d'aver fatto la capocuoca in un albergo sulle Dolomiti, durante una stagione estiva, prima di sposarsi. Ma il marito le aveva poi imposto di abbandonare il lavoro, la voleva tutta per sé e per la casa. Lei, tuttavia, non perdeva occasione per ricordare quella sua abilità e il lavoro di prestigio svolto. Marcellina abitava in una casa rossa, all'ultimo piano, il quinto, senza ascensore. «Speriamo che non siano fuori» disse Marilena, «o per lo meno che sia a casa lei, se c'è ci invita di sicuro». Ci venne ad aprire lo zio. Rimase un attimo in silenzio per la sorpresa, pronunciò una esclamazione e ci tese la mano. «Venite, venite» disse poi, tirandoci dentro e spingendoci verso la sala che era quasi buia, con il televisore acceso. «Qui» disse indicando una grossa poltrona che era di spalle, «abbiamo una brutta novità». Dalla spalliera si sporse un viso di donna. Era Marcellina. Stava quasi sdraiata, con le gambe distese su due file di cuscini posati su un panchettino, la gamba destra era grossa e bianca, ingessata. «Marilena, Marilena» incominciò a dire la zia con voce lamentosa, «guarda cosa m'è successo: sono ruzzolata giù per le scale e mi sono rotta una gamba. Tutte a me capitano». E dopo una pausa: «Avete fatto proprio bene a venire, mi dispiace solo che non posso invitarvi a stare con noi. Ditemi, raccontatemi di voi».
Bisognava sbrigarci, erano già passate le sette, non c'era tempo da perdere, dovevamo tentare un'altra tavola. Pensammo ai Santarelli. Lui, Amleto, prima del nostro trasferimento a Milano, era stato mio socio in un commercio di bottiglie e di sugheri, poi le cose erano andate male e ognuno aveva cercato un'attività diversa. Eravamo rimasti in buona amicizia; l'ultima volta che ci eravamo incontrati Amleto aveva detto che alla nostra nuova venuta avremmo dovuto essere loro ospiti, altrimenti se ne sarebbero offesi.
Rapidamente ci andammo. Sotto l'androne udimmo la voce di lui per le scale e un momento dopo ce li trovammo davanti, marito e moglie, ben vestiti, lei con un mazzo di fiori in mano: «Che sorpresa! Ma come mai, così senza avvertire?» disse lui, e aggiunse: «Non possiamo nemmeno stare insieme, siamo invitati a cena, stiamo andando. Guai a voi se la prossima volta non ci informate per tempo».
«Si sta facendo tardi» disse Marilena con tono innervosito mentre risalivamo in macchina. «Possibile che non riusciamo a farci invitare da qualcuno?» Poi fece un gesto risolutivo con la mano: «Andiamo da Maria». «Quale Maria?» «Maria Buffagni, la mia collega di quand'ero all'anagrafe, ci volevamo un bene come sorelle, di tanto in tanto mi manda una cartolina». Andammo, venne ad aprire la madre, disse che la figlia era ancora fuori, ma non avrebbe tardato. Ci invitò in salotto, ci trattenne con qualche chiacchiera. Il tempo passava, ormai erano le otto, io e Marilena ci davamo occhiate di grande impazienza. Maria arrivò poco dopo, si poteva sperare bene. Abbracci, molte feste. «Rimarrete a cena con noi» disse con entusiasmo, ma sua madre intervenne rapida: «Saremmo liete di ospitarvi, ma sono colta alla sprovvista, avreste da lamentarvi della nostra tavola...» La figlia guardò la madre e poi noi con imbarazzo. Io non riuscii a controllarmi, mi alzai quasi di scatto. «Siamo passati solo per un saluto, adesso togliamo il disturbo».
Due minuti dopo eravamo già protesi verso l'ultimo tentativo: andavamo a trovare i Baldoni, gli ex padroni di casa. Brava gente, venivano sempre in casa nostra a vedere la televisione, quando loro ancora non avevano l'apparecchio. Li trovammo a tavola, loro due e tre dei quattro figli. Ci fecero sedere nella stessa sala da pranzo. «Immagino che a quest'ora avrete già cenato» disse la signora Baldoni. «Potevate venire prima, a cenare con noi: ci avreste fatto molto piacere». Né io né Marilena sapemmo dire una parola, non confermammo né smentimmo, eravamo sconfortati. Baldoni disse: «Bevete almeno un bicchiere di lambrusco» e subito versò il vino. Non fummo nemmeno capaci di rifiutare. Ma dopo poco mi sovvenne di dire: «Dobbiamo scappare, abbiamo un appuntamento alle nove».
Saluti rapidi. Uscimmo. Ma per far che, a quest'ora? Non c'era certo più da pensare ad un possibile invito. Eravamo vicini a una viuzza al fondo della quale c'era la trattoria "Al tortellino d'oro". Il nome veniva da un premio che quell'esercizio aveva avuto prima della guerra, quando godeva di una meritata fama; da anni la sua reputazione s'era rovesciata, i clienti dovevano essere ben poco esigenti. Ci guardammo, scuotemmo la testa. «Eh, sì» disse Marilena, «non ci resta proprio che il Tortellino d'oro».
Ci avviammo e dopo pochi passi ci imbattemmo in un vecchio alto, magro, un po' curvo. «Roberto» gridai. Si fermò, cercò di scrutarmi alla scarsa luce. Lo aiutai: «Sono Leandro, il figlio di Luigi, Giget, se lo ricorda? Lavoravate insieme in Belgio, in miniera». Mi riconobbe, si commosse. «Ah, sé, Giget, l’era propria ‘n amig». «Come va, Roberto?» Col capo fece cenno di no, e continuò a dondolarlo: era chiaro che le cose non andavano affatto bene. «A sun chè ca vag da ‘na coga che a la sira ogni tant l’am dà un piat ad mnestra».

Lo presi sottobraccio, ci avviammo verso la trattoria. «Stasera mangiamo insieme» dissi. Entrammo al Tortellino d'oro. C'erano solo due avventori. Ci sedemmo, all'oste ordinai: «Tre pastasciutte». Roberto mi fissava con occhi spalancati, gli tremava un poco il mento. 

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