La prima volta fu all’incrocio
di Sant’Egidio. Ero fermo al semaforo, in attesa del verde. Solo
nell’auto, anzi, no: alle mie spalle, sul sedile posteriore, c’era
Jolly, il mio cane. Al momento di partire, non appena avevo aperto lo
sportello era balzato dentro e io non avevo avuto animo di farlo
scendere; da qualche tempo gli era venuta la smania del giretto in
macchina, gli piaceva talmente che quando lo accettavo a bordo si
sdilinquiva in squittii di gioia e nei primi minuti tentava anche di
darmi i bacini di ringraziamento dietro l’orecchio, se non lo
tenevo lontano con la mano. Così ogni tanto lo portavo con me. Ero
lì soprappensiero, incantato a guardare le nuvolette dei fiati dei
pedoni che attraversavano. Per terra c’era ghiaccio e tutti
camminavano lentamente, facendo attenzione ai loro passi. D’un
tratto il mio occhio fu attratto dal gesto brusco di un uomo che sul
passaggio pedonale stava per cadere. Si sbilanciò su un fianco, alzò
il braccio opposto, ondeggiò e poi si ricompose: tutto in due o tre
secondi, poi proseguì. Era Mirco, mio fratello. Un’emozione
violenta, una vampata di calore alla testa: avrei voluto poter
scendere, corrergli al fianco, ma non potevo abbandonare l’auto lì
in mezzo e il semaforo continuava a rimanere rosso; a Sant’Egidio
il rosso è sempre lunghissimo e in quella circostanza mi parve
proprio interminabile. Vidi mio fratello scomparire nel flusso dei
passanti sul marciapiede, diretti verso il fiume; oltre tutto da
quella parte c’era il divieto di svolta. Al verde ripartii, detti
un’ultima occhiata ma Mirco non lo vidi più. Avevo una grande
agitazione. Cento metri più avanti, in un parcheggio, mi infilai in
un posto libero. Spensi il motore. Mio fratello qui, in città, nella
mia città, a cento chilometri dalla sua, senza che mi avesse
avvertito; ma com’era possibile? Mi sentivo sconvolto; le mani,
posate sul volante, mi tremavano. Era come se mi si aprisse davanti
agli occhi uno squarcio nero, un buio di vuoto e di mistero. Mio
fratello era qui per un motivo che mi taceva, dunque una sua trama
nascosta. Ci eravamo parlati la sera prima per telefono e non mi
aveva detto niente, quindi proprio un segreto. E se c’era oggi,
chissà quante altre volte c’era stato senza che mi informasse.
Incredibile. Al telefono ci parlavamo almeno due volte alla
settimana, lunghe chiacchierate per dirci tutte le notizie, anche
minime, delle nostre vite. Così da anni, da quando io mi ero sposato
e mi ero trasferito per il mio nuovo lavoro e lui era rimasto con la
mamma e il babbo. Morti loro, dopo qualche mese di solitudine si era
deciso a concludere con il matrimonio il fidanzamento quasi decennale
con Ornella la quale, mi aveva poi confidato, credeva ormai che
sarebbe rimasta zitella.
In quel parcheggio, con Jolly
che nella sosta era passato sul sedile anteriore del passeggero e mi
guardava interrogativamente perché ci eravamo fermati, rimasi almeno
per mezz’ora a rimuginare sulla immagine dell’uomo che era
scivolato sul ghiaccio e sui possibili motivi della sua presenza
nella mia città. Che quell’uomo fosse mio fratello non avevo
dubbi: lo avevo visto con chiarezza anche in viso. Sul perché lui
era lì non riuscivo proprio a focalizzare alcun ragionevole movente.
Motivi di lavoro? No, aveva un impiego parastatale, non aveva alcun
motivo di spostarsi dall’ufficio se non per passare in qualche
stanza accanto. Una relazione extraconiugale? Nemmeno: era saldamente
ancorato a sua moglie sia perché le voleva bene, sia perché
tradirla avrebbe comportato dispendio di energie e impegno
organizzativo: era un uomo tranquillo, un po’ indolente.
La sera, all’ora solita,
dopo cena, telefonai. Se non mi avesse detto niente avrei avuto la
prova del suo sotterfugio. E così fu, infatti. Discorsi soliti, le
banalità quotidiane, niente resoconto d’un viaggio, niente
esclamazione: “Sai, oggi sono venuto lì...” Adesso l’enigma si
infittiva: il suo era un segreto solo nei miei confronti o anche in
quelli di Ornella? L’avevo visto a metà della giornata e, dato che
per colazione non andava a casa perché mangiava in mensa, avrebbe
avuto tutto il tempo per arrivare qui, fermarsi magari un paio d’ore
e poi fare ritorno, senza che lei lo sapesse.
«Marco, oggi avrei giurato
che ti avevo visto» mi trovai a dire senza che l’avessi prima
pensato e intanto mi avvidi di essermi lanciato in un discorso
spinoso: lo interrogavo, stavo insinuando, lo accusavo? Ma mi rendevo
anche conto che era importante sentire e analizzare la sua reazione.
Tacqui e attesi. Ci fu un momento di silenzio. Poi disse, con voce un
po’ incerta: «Cosa vuoi dire, in che senso mi avevi visto?»
Dovevo spiegare, non potevo lasciare una frase simile sospesa per
aria. «A un semaforo dove ero fermo ho visto uno che stava per
cadere mentre attraversava la strada e sembravi proprio tu». «Già,
tanti si assomigliano», disse, «io comunque non stavo per cadere,
ero seduto alla mia scrivania». Poi subito cambiò discorso: «Te lo
ricordi il tavolino del nonno, quello con l’intarsio della dama, ha
l’impiallacciatura che si scolla...»
Quella notte tardai a prendere
sonno. Il pensiero era fisso su questa vicenda. Provavo la sensazione
della presenza di un muro di sbarramento oltre il quale non potevo
procedere: restavo di qua impossibilitato ad andare avanti e di là
c’era lui, Mirco, che prima era sempre stato un tutt’uno con me e
adesso diventava estraneo, forse anche rivale. Ma che cosa tramava,
che cosa era lui per me e che cosa ero io per lui? I giorni che
seguirono furono diversi dai precedenti, mi sentivo in un cono
d’ombra; anche se il pensiero e la tensione si erano un po’
attenuati, ero immerso in un offuscamento che mi rattristava e
incupiva. Telefonai a mio fratello con maggiore frequenza, sperando
di poter cogliere nelle consuete conversazioni qualche segnale che
potesse farmi capire qualcosa, aprirmi uno squarcio nel buio. Una
sera chiacchierai con Ornella, lui era andato a una riunione di
condominio. «Ho voglia di vedervi» dissi, «perché una volta tanto
non fate voi una gita fin qui?». «Figurati» disse lei, «con Mirco
così pantofolaio com’è non si può programmare niente. Non muove
mai neanche la macchina, che sta invecchiando senza nemmeno aver
fatto il rodaggio. Vieni tu, che ci fai sempre piacere». No, Ornella
certamente non sapeva nulla di ciò che lui poteva aver fatto quel
giorno a cento chilometri da casa. Dovevo tenere per me l’enigma,
ci avrei arzigogolato intorno con tormento d’animo e scarsa
probabilità di riuscire a svelarlo.
Avevo la speranza che il mio
almanaccare si sarebbe a poco a poco affievolito man mano che mi
allontanavo da quell’episodio, ma un paio di settimane dopo, di
primo pomeriggio, mentre stavo parlando per strada, fermo con un
amico che non vedevo da tempo e che avevo incontrato un momento
prima, vidi la faccia di Mirco passarmi veloce a meno di un metro.
Era quasi appiccicata, frontalmente, al vetro del finestrino di un
tram diretto a un capolinea collinare. Istintivamente feci un gesto
con la mano come per fermarlo e aprii la bocca ma non mi venne alcuna
parola. L’amico mi guardò meravigliato e si girò per capire che
cosa mi avesse colpito. «Volevo salutare uno» dissi e subito
tagliai corto, dovevo andare alla macchina, inseguire il tram.
Purtroppo avevo parcheggiato lontano. Ansante e sudato, col cuore in
tumulto, mi misi al volante e puntai verso la collina seguendo un
percorso più breve della linea tranviaria. Arrivai un paio di minuti
prima del tram. Ne scesero in molti, ma lui no, evidentemente era
smontato ad una fermata intermedia. Mi sedetti in macchina e rimasi a
lungo a cuocermi nella delusione e nelle solite intricate
supposizioni.
Due incontri, questi, nel giro
di una ventina di giorni. L’inizio. Quante altre volte ho visto mio
fratello nella mia città e quante volte, parlandogli al telefono,
sono stato tentato di dirgli “Insomma, mi dici come mai vieni qui e
non mi avverti, non mi vieni a trovare? Che cosa mi nascondi?” Ma
mai il mio pensiero si è realizzato con delle parole. Ogni mancato
intervento era per me una sconfitta, mi sentivo un incapace, un
soggiogato e mi chiedevo anche perché non avevo il coraggio di
prendere in pugno la situazione, di pretendere di sapere. A
malincuore mi davo la risposta: inconsciamente temevo che qualsiasi
motivo mi avesse prospettato avrebbe turbato il nostro annoso, quieto
andamento di relazione fraterna a distanza. In certi momenti cercavo
di scrutare nel mio intimo e allora la risposta m’appariva più
chiara: mi sentivo in colpa per avere, tanti anni prima, lasciato la
nostra casa e lui solo con la mamma e il babbo, che già erano
malandati in salute, unicamente pensando al mio interesse. Nessuno di
loro aveva mai fatto alcuna insinuazione a questo proposito, ma io,
senza dirmelo apertamente, mi ero caricato di una dose di
responsabilità. In questo periodo parlavamo al telefono delle
piccole cose quotidiane fingendo normalità mentre tra noi gravava un
peso enorme, almeno così io sentivo e pensavo: il peso di un mistero
per me, e per lui di un segreto.
Vedevo, o meglio scorgevo,
Mirco con frequenza variabile, in certi periodi una o due volte al
mese, in altri anche cinque o sei, e nelle circostanze più strane;
sempre, comunque, di sfuggita, non incontrandolo faccia a faccia,
un’eventualità questa che in certi momenti mi auguravo e in altri
temevo, pensando di trovarmi impreparato ad affrontare la situazione:
dipendeva dal mio umore. Certo, mio fratello era diventato per me un
pensiero fisso: aspiravo a risolverne l’enigma come si può
aspirare a vincere il primo premio di una grande lotteria, con la
convinzione che sia cosa impossibile. Questo chiodo mentale mi
accompagnava fino a quando, la sera, posavo la testa sul cuscino. E
lì le fantasiose astruserie sconfinavano dal ragionamento al sonno
trasformandosi in sfilacciature, frantumi di sogni; al risveglio li
ricordavo appena per qualche minuto e subito dopo si disperdevano
diventando inafferrabili. Ma una notte il sogno fu così chiaro e
intenso che alla fine mi svegliai con il cuore in tumulto per
l’emozione. Capivo che questa volta non lo avrei dimenticato,
tuttavia, per maggiore sicurezza, mi alzai, presi foglio e matita e
scrissi qualche appunto sulla traccia di quello che avevo vissuto. Mi
sarebbe anche servito come testimonianza se mi fossero sorti dubbi.
Ero in auto e procedevo su
un controviale rasentando il marciapiedi, lentamente, perché cercavo
un certo negozio. Sul sedile posteriore avevo il cane.
Improvvisamente davanti a me un braccio si protende e una mano è
aperta come segnale di stop. Blocco la macchina, alzo gli occhi e
vedo lui, Mirco: alto, elegante. Mi guarda ed esclama il mio nome
come se fosse sorpreso di vedermi lì. Il mio primo istinto è quello
di dirgli che sono io che devo essere meravigliato di vedere lui
nella mia città senza essere stato preavvertito. Ma sta aprendo lo
sportello per salire e una valanga di sensazioni mi sommerge, la più
intensa è il timore che Jolly, geloso dell’intimità della sua
automobile, tenti di aggredirlo; e allora lo cerco alle mie spalle
con la mano, afferro il collare, lo chiamo con voce rassicurante per
tranquillizzarlo. Lo guardo, è calmo, come se conoscesse l’ospite
o come se non fosse salito nessuno. Meno male, il problema cane è
superato, adesso devo affrontare la piena dei miei sentimenti, dire a
Mirco rabbia e amore, chiedergli perché, perché e ancora perché.
Metto in fila le parole sforzandomi di essere calmo e intanto lo
fisso: guarda davanti a sé, la strada, è come se fosse solo, come
se non mi avesse nemmeno visto; eppure un momento fa ha pronunciato
con vigore il mio nome. Lo sento freddo, distante, e allora tutto il
mio dire si spegne, le parole muoiono soffocate in gola dal groppo
che sale. Lo guardo in silenzio e incomincio a piangere, a dirotto.
Nemmeno si volta e tace, continua a tacere. Jolly è allarmato per il
mio singhiozzare, si mette a gemere e mi bacia dietro un orecchio; lo
capisco, vuole farmi coraggio. Adesso Mirco pone la mano alla
maniglia, apre lo sportello e scende, sempre in silenzio, senza dirmi
nemmeno ciao. Io lo chiamo per fermarlo e intanto mi sveglio, in
tempo per sentire la mia voce che pronuncia il suo nome.
Quel sogno non lo avrei
dimenticato neanche senza gli appunti. Mi era rimasto talmente
impresso che per molti giorni lo rivivevo di continuo, con la
fantasia movimentavo la scena, immaginavo di essere riuscito a
parlargli, gli chiedevo ragione di tutti quei perché che sognando
avevo in animo di dire senza riuscire ad aprire bocca. Entravo tanto
in quell’atmosfera dentro l’auto con noi due e Jolly che si
struggeva per il mio pianto che a tratti mi pareva che l’evento
fosse davvero accaduto. Allora prendevo in mano il foglio con gli
appunti per convincermi che Mirco non era affatto salito sulla mia
auto. Poi entrai in un periodo di relativa tranquillità: pensavo un
po’ meno alla storia di mio fratello e quand’ero in giro per la
strada il mio occhio non s’accaniva più a gettare occhiate
panoramiche tutt’attorno per vedere se scoprivo la sua figura.
L’ossessione si placava e me ne rendevo conto con sollievo. Ormai
mi stavo assuefacendo all’idea che tra noi c’era questo qualcosa
misterioso che lui faceva, o meglio tramava, e che io non dovevo
conoscere. Mi rassegnavo; forse, pensavo, non merito di sapere perché
non ne sono degno, probabilmente a causa del mio lontano abbandono
della nostra famiglia.
Un giorno – di pomeriggio;
era autunno e io, a piedi, mi ero fermato in un viale ad ammirare le
foglie che il vento faceva danzare come per gioco a mezz’aria –
lo vidi. Era a cavallo. Si direbbe, incredibile. E invece no, era
proprio lui, su un cavallo morello. Un gruppetto di cinque cavalieri
avanzava al passo sul sentiero tra il filare degli ippocastani e la
siepe che delimita un piccolo parco giochi. È un percorso ogni tanto
frequentato dai soci di un club di equitazione che è ai margini
della città. Non lo sapevo, me lo disse un vecchio che pure si era
fermato ed evidentemente si meravigliava di vedermi fissare la scena
con gli occhi sbarrati. «Di tanto in tanto càpitano, vengono
dall’Ippica del Ronchetto, e a volte qualche cavallo si spaventa
per le automobili che passano come fulmini» aveva commentato. Ma io
non ero stupito perché lì c’erano degli uomini a cavallo, ero
come imbambolato perché uno di quegli uomini era lui, mio fratello.
Anch’egli in tenuta da cavallerizzo come gli altri, che erano tre
uomini e un’amazzone. Mirco era il più anziano, stava ritto
impettito, con lo sguardo fisso, e montava con eleganza, in modo
armonioso, almeno così mi pareva. Io e il vecchio eravamo dalla
parte opposta del viale e tra noi e il gruppo sfrecciavano le
macchine. Immobile, solo girando lentamente la testa per seguire il
passaggio dei cavalli, non mi venne fatto di gridare il nome di
Mirco, non ci pensai proprio. Era come se vedessi qualcuno o qualcosa
di irraggiungibile, sebbene in qualche modo mi appartenesse o mi
avesse appartenuto. Ormai i cavalieri si stavano allontanando e io
continuavo a guardarli. In quel momento mi affiorò un vago ricordo:
io, bambino, avevo sentito dire che Mirco andava a cavallo. Lui era
un ragazzo, maggiore di me di otto anni; comunque non lo avevo mai
visto cavalcare; e poi aveva smesso presto perché, mi pare,
spaventato dalla brutta caduta di un suo compagno. Adesso mi chiedevo
se poteva mai esserci qualche relazione tra quel breve lontanissimo
rapporto di Mirco con le cavalcate e la sua presenza nella mia città,
dopo decine e decine d’anni, a spasso col cavallo, come se fosse a
cento metri da casa sua.
L’incontro sul viale di
ippocastani mi annullò di colpo quella rassegnazione che avevo
conquistato negli ultimi tempi: Mirco tornò al centro dei miei
pensieri, ripresi a telefonargli con frequenza, sempre con la
speranza di scoprire nelle sue parole qualcosa che lo tradisse, che
mettesse allo scoperto il suo doppio, il Mirco segreto che veniva
nascostamente nella mia città per cavalcare o per fare chissà quali
altre astruse cose. Ma era sempre ben vigile, chiacchierava con la
massima naturalezza e io sentivo che non avrei mai potuto chiedergli
di svelarmi quello che mi nascondeva. Tra me e lui c’era un abisso
che con quelle domande avrei dovuto superare d’un balzo. Dovevo per
forza adattarmi alla mia sudditanza psicologica, alla mia
inferiorità, alla sola speranza, se sperare era possibile, di vedere
svelato l’enigma per una qualche circostanza fortunata. Dopo quel
giorno andai ancora qualche volta, appena mi fu possibile, lungo quel
viale, ma non incontrai più i cavalieri. Poi venne l’inverno.
Quello che era un modesto
parco giochi lungo il viale degli ippocastani è irriconoscibile: le
altalene, i tralicci a scacchiera, gli scivoli sono stati rinnovati e
aumentati di numero, ma soprattutto oltre a questi è stato creato un
parco vero con tante piante, aiuole, stradine. Tutto questo su una
vasta area, una volta occupata da uno stabilimento per la riparazione
delle carrozze ferroviarie che è stato eliminato. Ci sono anche dei
laghetti e delle piazzuole di cemento sulle quali corrono i ragazzi
coi pattini a rotelle. E le stradine per il passeggio sono
fiancheggiate da molte panchine. Ai lati del viale, tra gli
ippocastani e la siepe, c’è ancora il sentiero sul quale una volta
vidi passare Mirco a cavallo insieme con altri quattro cavalieri.
Qualche cavaliere passa ancora, di tanto in tanto, ma Mirco non l’ho
più visto. E vengo spesso, quando la stagione lo permette; adesso
che è estate sono qui quasi tutti i giorni. Vengo con l’autobus
perché non ho più l’auto: mi scadeva la patente e quando sono
andato alla visita medica mi hanno respinto, per la cataratta: avevo
sbagliato a leggere una lettera in un cartello. Ma va bene anche
l’autobus, tanto sono solo, Jolly non c’è più, era vecchio e se
ne è andato. Di solito mi siedo su una panchina vicino alla siepe e
di qui posso tenere d’occhio il sentiero degli ippocastani.
Ho fatto amicizia con altri
vecchi e anche con dei ragazzi. Coi vecchi parliamo, ci raccontiamo
delle nostre vicende, di quando eravamo giovani, in buona salute e
facevamo la nostra vita. Mi è capitato di raccontare di mio fratello
e dell’ultima volta che lo vidi, ormai tanto tempo fa, venire
avanti in sella al cavallo. Se qualcuno vede dei cavalieri prima di
me mi avverte subito perché possa controllare se c’è anche lui.
Ma non c’è mai. Da molto non riesco nemmeno a parlare col telefono
né con lui né con Ornella. Faccio il numero e mi dicono che non c’è
nessun Mirco e nessuna Ornella. L’altro giorno una donna mi ha
risposto sgarbata: «Ma la vuole smettere di fare questo numero, la
vuol capire sì o no che da due anni qui c’è una lavanderia e non
una abitazione?». Non so come mai mi rispondano così, quello era il
numero di Mirco. Parlavamo del più e del meno, non mi diceva niente
dei suoi viaggi fin qui, ma mi faceva piacere scambiare un po’ di
parole con lui.
Vedo venire verso di me sui
pattini un ragazzino alto, biondo, è Sandro, siamo diventati amici.
Una volta era caduto proprio davanti alla mia panchina, sanguinava a
un ginocchio e si era fermato a fasciarselo con il fazzoletto.
Avevamo chiacchierato un bel po’ e da allora ogni tanto mi viene a
salutare. Quando arriva le prime parole sono sempre per la stessa
domanda: «E l’uomo a cavallo l’ha rivisto?»
Nessun commento:
Posta un commento
Dimmi la tua opinione: