I calzolai col deschetto che facevano
le risuolature, o anche soltanto rattoppavano la tomaia con una
piccola cucitura, oggi sono praticamente introvabili. A cercare una
di queste botteghe quasi sempre si gira a vuoto. Il diffondersi
dell'industrializzazione ha di fatto cancellato le riparazioni,
rendendo più conveniente l’oggetto nuovo; e così a poco a poco va
scomparendo l’artigianato. Come i calzolai, appunto. Ce n’erano
di bravissimi, che un piede, dopo averlo ben misurato, sapevano
calzarlo alla perfezione. I più si limitavano alle riparazioni e
anche tra questi c’erano diversi livelli di bravura: in genere i
migliori erano in città, con una clientela esigente, mentre nelle
campagne i ciabattini, avendo per le mani soprattutto zoccoli,
sapevano più piantar chiodi che lavorare di trincetto. Di questi ne
ricordo uno, negli anni trenta, nella Bassa modenese. Si chiamava
Rigoni ma era conosciuto come Toppone, per le toppe che metteva nelle
scarpe
In marzo, con le prime giornate
tiepide, Rigoni portava fuori dalla cucina il deschetto e si metteva
a lavorare in cortile. Il cortile era lungo e stretto: da una parte
la fila di usci delle varie abitazioni, dall’altra un muro alto due
piani, senza finestre. In fondo c’era una rete metallica e oltre la
rete la campagna con i filari di olmi che reggevano le viti di
Lambrusco. Sistemava il deschetto vicino alla rete, sempre nello
stesso posto.
Usciva a lavorare fuori il più presto
possibile, ai primi accenni di primavera, per sfuggire al baccano che
gli facevano intorno i figli. Ne aveva dieci, la più grande contava
quattordici anni, il più piccolo pochi mesi. E tutti stavano nella
cucina che era abbastanza grande per farci da mangiare, ma molto
piccola per viverci tutto il giorno in due adulti e dieci ragazzi, e
soprattutto per lavorarci.
La moglie di Rigoni, alta, magra,
sempre vestita di nero, con un fazzoletto nero in testa, aveva sempre
un’aria trasognata. sembrava che stese chiedendosi se esisteva o
no. I ragazzi le saltavano addosso mentre era seduta a rammendare o a
far la calza e lei nemmeno se ne accorgeva, tutt’al più si metteva
a lavorare di sbieco per scansarli. Rigoni invece si spazientiva per
quel frastuono e quando il clamore si faceva proprio insopportabile
gridava: «Basta, basta, vado via, vado in Africa». Si era alla
vigilia della guerra in Abissinia e ogni tanto qualcuno del paese
partiva volontario. L’Africa in quel tempo sembrava un miraggio che
avrebbe potuto risolvere tanti problemi che gravavano sulla gente,
per la disoccupazione e la miseria. «Vado in Africa, vado in Africa»
ripeteva, ma si sentiva dalla sua voce che fingeva solo di essere
arrabbiato e che in Africa, di sua volontà, non ci sarebbe mai
andato. Quella masnada di figli, pur chiassosi e turbolenti, erano il
suo mondo dal quale non avrebbe potuto separarsi. Quando proprio non
ne poteva più gridava: «Tutti su, in camera». La camera era
l’unica dell’abitazione, stava sopra la cucina ed era disseminata
di pagliericci. Ma dopo un poco si pentiva, li faceva ridiscendere
perché aveva paura che qualcuno, nella foga dei giochi, saltasse giù
dalla finestra.
Il calzolaio Rigoni lavorava dodici,
anche quattordici ore al giorno, incominciava con le prime luci
dell’alba e smetteva quando non ci si vedeva più. Sgobbava tanto,
ma guadagnava poco perché, com’era molta la sua buona volontà,
così era scarsa la sua abilità. Non ne aveva colpa. Il mestiere del
ciabattino l’aveva imparato da sé, aggiustando le scarpe dei suoi
quindici fratelli, d’inverno, nella stalla. Sposandosi e non avendo
voglia di lavorare nei campi, era uscito di famiglia e aveva messo su
il deschetto. In paese, viste le sue esecuzioni, gli avevano
affibbiato quel soprannome. Ma i suoi erano tutti clienti che
andavano da lui solo per riparazioni grossolane: una pezza, due
chiodi, una cucitura; per le scarpe nuove e le risolature andavano
dagli altri tre calzolai del paese.
Conosceva i suoi limiti e non si
lamentava di niente, nemmeno d’essere chiamato Toppone, e di dover
lavorare tante ore per guadagnare poco più che la polenta per tutti
i suoi figli. Era, anzi, sempre molto allegro. In cucina o nel
cortile teneva al suo fianco una sedia, pronta per far sedere
l’eventuale cliente. Chi portava un paio di zoccoli o di ciabatte
doveva per forza mettersi a sedere, almeno due minuti, a scambiare
qualche chiacchiera con lui. E tutti sostavano contenti perché a
stare con Rigoni c’era da fare buon sangue. «Argia» gridava alla
moglie, «metti a friggere un metro di salsiccia, ché il signore fa
uno spuntino con noi». La moglie non alzava nemmeno la testa a quel
finto ordine, ormai l’aveva udito migliaia di volte, perché Rigoni
parlava molto di salsiccia. Magari insisteva, fingendosi
impermalito: «Non crede che le faccia friggere un metro di
salsiccia. Ma lo sa che su, in camera da letto, appesi a due stanghe
che vanno da muro a muro, ce ne ho tredici metri?»
I clienti ridevano, qualcuno lo
stuzzicava per farsi descrivere volume, colore, sapore della sua
salsiccia e Rigoni allora si metteva a creare il suo poema per la
saporita carne insaccata. Ne parlava con un trasporto e una
competenza da far venire l’acquolina in bocca anche a chi s’era
appena alzato da tavola. Lì, seduto al deschetto, con le mani
abbandonate e immote sulla suola di uno stivale scalcagnato, Rigoni
si trasformava con la fantasia in un macellaio-conditore di carne
suina, di quei beccai che, nel pieno dell’inverno, vanno di cascina
in cascina per le campagne della Bassa emiliana a scannar maiali e
sono pagati, elogiati, riveriti dai contadini che in quella
operazione da mattatoio vedono quasi un rito. Così Rigoni tritava
con parole sapienti e sentite la rossa carne, le infondeva il giusto
aroma, l’insaccava dentro un interminabile budello che poi
suddivideva in tanti rocchi lunghi una spanna. Il cliente sorrideva
divertito e Rigoni continuava a parlare con fervore: stagionava la
salsiccia, la friggeva per mangiarla spellata con la polenta o la
metteva in umido con l’uva secca, con le uova, con i fagioloni
bianchi. In quei momenti la sua eccitazione era tanta che forse
sentiva davvero, lì in cucina o nel cortile, il profumo della
salsiccia. Per ascoltarlo, smettevano di correre e di gridare anche i
suoi ragazzi e l’Argia si svegliava dal suo torpore, rideva quasi
inebetita, come se stesse per mettersi a tavola a mangiare il piatto
che suo marito aveva preparato con tanta passione. Poi l’incanto
finiva e Rigoni concludeva: «Allora ha capito: quando ha bisogno di
uno che sappia cucinare qualche metro di salsiccia, venga da me».
Era il grande desiderio che lo faceva
parlare in quel modo. Forse di salsiccia in casa sua, da quando era
sposato, non se n’era mai mangiata. Parlava per le esperienze
giovanili, di quand’era contadino, figlio di famiglia, e nella
cascina, in febbraio, ammazzavano il maiale. A comperarla in bottega
la salsiccia costava cara, era cibo da gente che aveva soldi; e lui,
con tutti quei figli, la salsiccia avrebbe davvero dovuto portarla a
casa a metri. Le bocche dei suoi ragazzi erano abituate al baccalà e
alle salacche. Fra tanti figli che aveva ce n’era sempre uno che
credeva ai tredici metri di salsiccia, pensava che fossero nascosti
in qualche angolo della camera. E diceva alla mamma: «Ma se è così
buona come dice il babbo, perché non ce ne dai un poco?»
Fu d’autunno che Rigoni s’ammalò.
Si era accanito a restare a lavorare in cortile, nonostante il
freddo. Si prese la polmonite. Alla fine della prima settimana di
malattia ebbe una crisi, i vicini dicevano: «Toppone muore
stanotte». Invece si riprese, per tre giorni andò migliorando, il
pericolo sembrava superato, qualcuno fra i più amici andò a fargli
visita. Era già allegro, come al solito. «Adesso è ancora presto,
ma appena sto meglio faccio friggere un paio di metri di salsiccia
per riabituare lo stomaco. Ce n’ho tredici metri, giù, in cucina»
e strizzava l’occhio contento.
Poi, d’improvviso, la quarta notte
dopo la crisi, morì. Fu una notizia dolorosa, per tutto il paese,
perché gli volevano bene anche quelli che non erano suoi clienti e
disprezzavano le sue capacità di ciabattino. Per il funerale il
cortile si riempì di folla. Arrivarono anche dei fiori, una corona
mandata da tutte le classi delle scuole elementari, perché ogni
classe era frequentata da almeno uno dei figli. Mentre il parroco
stava per benedire il feretro, arrivò la fioraia con un grande
involto. Aveva un atteggiamento incerto, l’aria confusa. Porgendolo
a uno dei presenti che le era più vicino, disse: «Non sono fiori,
ma io non c’entro, me l’hanno consegnato con la preghiera di
portarlo». Ci fu un momento di esitazione, tutti gli occhi erano
su quel misterioso pacco. Anche il prete indugiò, poi fece segno di
aprirlo.
Sì, non erano fiori: era salciccia,
una lunghissima catena di rocchi disposta in circolo a formare una
corona e in mezzo era posato un nastro azzurro con la scritta I SUOI
13 METRI. Si sentì un coro di oh oh e poi parole di stupore e
ammirazione. Però non c’era tempo da perdere, la cerimonia doveva
concludersi. La bara fu posta sul carro e sulla bara la corona degli
alunni. E la salciccia? Nel silenzio ci fu un cercarsi di sguardi,
il prete fece un cenno in direzione della cucina, ma una voce disse:
«No, portiamola in corteo». «Sì, sì» ribatte una donna e subito
alcuni incominciarono a sciogliere la corona di rocchi e ad
allungarla, sicché in un attimo, di mano in mano, andò ad ornare
la parte posteriore e i fianchi del carro, come in un abbraccio. Ci
appiccicarono anche il nastro con I
SUOI 13 METRI. Un
vecchio commentò: «Come sarebbe contento Toppone, se potesse
vedere».
Un funerale memorabile. In paese ne
parlano ancora adesso, sebbene siano passati tanti decenni.
Naturalmente la salciccia fu mangiata dalla vedova e dai dieci
orfani. Ne fecero conto, come fosse un filone d’oro. Servì a
sfamare la famiglia per più di un mese. Proprio sul finire degli
ultimi rocchi Clotilde, che era la figlia maggiore, trovò da
occuparsi in città come serva e un mese dopo fece una scappata a
casa a portare il primo stipendio.
Non si era mai saputo chi aveva
consegnato alla fioraia il pacco da portare al funerale di Rigoni.
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