venerdì 9 dicembre 2011

Natale in famiglia


Fu a metà dicembre che mi venne l’idea d’andare a casa, per Natale. Sentivo Pollini, uno dei nostri precettori, ripetere fino alla noia: «Colpa vostra, brutti mocciosi, se non potrò trascorrere nemmeno il Natale in famiglia». Pollini era maestro dell’Istituto del Buon Cuore dove io ero ospite; insegnava ai più piccoli di giorno e di notte, a turno con altri maestri, dormiva nella nostra camerata come sorvegliante. Il turno della settimana di Natale sarebbe toccato a lui. «Tutto l’anno con voi – andava ripetendo – e non mi lasciate passare tra i miei nemmeno la festa più bella».
Dentro era buono, ma aveva una scorza dura, parole aspre e la sensibilità di una grattugia. Lo dimostravano, se non altro, quei suoi richiami alla famiglia fatti a noi che famiglia non avevamo. Eravamo orfani, oppure figli di genitori separati, senza più una casa che ci potesse accogliere. Io avevo ancora mio padre, al paese. Mi aveva portato lui nell’ospizio un mese dopo che era morta mia madre, quando avevo sette anni. «Qui – mi aveva detto – potranno avere cura di te più di quanto possa fare io da solo». Non l’avevo più rivisto da allora ed erano passati tre anni.
La direzione dell’istituto mi aveva trovato un lavoro. La mattina andavo a scuola, in un’aula dello stesso nostro edificio, e al pomeriggio, dopo che avevo riportato in camera il mio gamellino, uscivo e andavo da un meccanico a fare il garzone apprendista. Il sabato sera il padrone mi dava ventiquattro lire e io, tornato all’ospizio, prima ancora di salire in camerata, passavo per l’ufficio del direttore e posavo le ventiquattro lire sul suo tavolo. Facevo così io e facevano così gli altri che come me uscivano per il lavoro.
L’ospizio era triste: soffitti alti, a volta, muri scuri di sporcizia, brande di legno che scricchiolavano, rancio che sapeva sempre di cipolla e a me la cipolla non piaceva. Tristezza dentro e tristezza fuori. Quando in camera ci affacciavamo alle finestre per un bisogno istintivo di guardare oltre quelle nostre povere cose, vedevamo, al di là del vicolo, proprio di fronte, una fabbrica in abbandono. La sua facciata era scura, tetra, senza vita: le finestre non avevano imposte ed erano chiuse da reti metalliche, l’intonaco cadeva a larghi squarci nelle cui irregolarità noi ragazzi immaginavamo le più strane figure.
Sicché di sera, all’ora del silenzio, il maestro Pollini continuava a brontolare pensando al Natale che il turno di servizio gli avrebbe rovinato. Anche di giorno, in officina, sentivo parlare del Natale. Il meccanico diceva: «Mia figlia, per le feste, viene su con il bambino. Farà quindici ore di viaggio massacrante, ma una volta all’anno lo si può fare». Pensavo al viaggio che avrei fatto io se fossi andato al mio paese: un’ora e mezzo di trenino, non di più. Ma io non potevo andare a casa: per ottenere questo permesso occorreva che alla direzione dell’ospizio giungesse la richiesta di un nostro familiare o di un parente.
Mio padre non si rammentava di me, eppure ero convinto che mi avrebbe rivisto volontieri. Lo ricordavo con nitidezza quando, verso sera, tornava dal lavoro in bicicletta e io lo aspettavo in cortile: appena imboccava la stradella di casa mi faceva un gesto con il braccio alzato e gridava il mio nome. Adesso che non c’era più la mamma la nostra famiglia era formata da lui e da me, ma fin che stavamo divisi la famiglia non poteva esistere. Mi sarebbe proprio piaciuto unirmi con mio padre, a Natale, raccontargli del mio lavoro, della vita di noi ragazzi all’ospizio, di quello che mi sembrava di vedere nelle chiazze del muro della fabbrica in abbandono che era davanti alle nostre finestre.
A forza di pensarci decisi di andare, a Natale, da mio padre. Non dissi niente a nessuno. Natale cadeva di sabato e il mio padrone mi aveva annunciato che mi avrebbe pagato il venerdì, venti lire, perché mancava un giorno di lavoro. Sarei partito la sera della vigilia, c’era un treno alle sei e venti, arrivava in paese poco prima delle otto. E così feci, infatti. Era una sera fredda, il cielo sereno, a terra uno strato di ghiaccio. Sotto la mantellina nera della divisa stavo rannicchiato in un angolo dello scompartimento. La gente – operai, bracccianti, donne di servizio – parlavano dei regali, di quello che avrebbero mangiato l’indomani, della messa di mezzanotte.
Dalla stazione a casa c’erano dieci minuti di strada. Il ghiaccio scriccchiolava sotto le scarpe, a volte scivolavo, pensavo a quello che avrebbe detto mio padre vedendomi. La luce della cucina, a pianterreno, era accesa, bussai. Venne ad aprirmi un giovanotto: «Cosa vuoi ?» mi chiese. «Cerco mio padre, Antonio, il muratore». «Ma non sta più qui, abita nella casa rossa, di fianco alla chiesa». Tornai indietro. Mi dispiaceva che non abitasse più in quella casa: lì ero nato, avrei voluto rivedere la cucina, la camera da letto, l’angolo vicino alla finestra dove stava mia madre a cucire.
Arrivai alla casa rossa, il portone era chiuso, allora mi misi a chiamare: «Babbo, babbo», ma nessuna finestra si apriva. Chiamai: «Antonio, Antonio» e dopo un po’ mio padre si affacciò. Il suo viso era buio contro la luce, ma riconoscevo la voce. «Chi è?» chiese. «Sono io, Luciano». «Vengo, vengo» e richiuse in fretta. Un minuto dopo il portone si aprì, mio padre mi abbracciò, mi sospinse su per le scale, entrammo in cucina. «Come mai, come mai – mi chiedeva – hai pensato di farmi questa improvvisata? E come stai, ti trovi bene? Come sei cresciuto!».
Continuava a parlare, senza aspettare una mia parola di risposta. D’altra parte io non rispondevo. Fissavo stupito la donna che stava seduta alla tavola davanti al piatto fumante e che pure mi stava guardando. Era bionda, giovane, piuttosto grassa. «È mia moglie – disse poi mio padre dopo un attimo di esitazione. – Adesso siediti a tavola, mangia con noi, avrai fame». Incominciai a mangiare e intanto mio padre continuava a parlare, diceva che lavorava in un palazzo di sei piani, il più alto che fosse mai stato costruito in paese, diceva che non aveva mai avuto occasione di venire in città, diceva che aveva proprio desiderio di vedermi.
E intanto la donna mi guardava, si sforzava di sorridermi. «Stanotte – disse poi mio padre – tu dormirai lì» e indicò l’ottomana che era dietro la schiena di sua moglie. «Peccato – riprese a dire – che domani non si possa stare insieme: abbiamo già combinato d’andare a casa dai suoi di lei – e accennò con la testa allla donna. – Ma tu non ti devi preoccupare, puoi stare qui con i Gheduzzi, sono nostri vicini di casa, hanno dei ragazzi anche loro, potete giocare insieme».
La donna bionda ora rideva, sembrava che ridesse contenta perché mio padre aveva finalmente detto che loro l’indomani dovevano andarsene e io sarei rimasto dai Gheduzzi. Parlai senza pensare a quello che dicevo, istintivamente, dissi: «Ma io domattina devo riprendere il treno, non ho detto niente all’ospizio, certo mi aspettano e mi cercano». «Allora – disse la donna – lo sveglieremo alle sette». «Come vuoi tu, Luciano» disse mio padre.
Dopo cena la donna trasformò l’ottomana in letto. Ci si stava bene. Ma io pensavo ai miei compagni di camerata che certo si chiedevano dove potevo essere andato, pensavo al maestro Pollini che imprecava contro di me perché gli rovinavo ancora di più la sera della vigilia. Avrei voluto dormire in fretta e poi sentirmi svegliare per prendere il treno. L’indomani anche all’ospizio sarebbe stato Natale.

Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi la tua opinione: