Aspettammo la notte
buona. Una notte di marzo, un sabato. Il sabato era la giornata
migliore per l'afflusso alla discoteca: venivano giovani da tutti i
paesi della zona, anche da cinquanta chilometri di distanza; il vasto
piazzale del parcheggio era gremito già dalle dieci di sera e poi le
macchine che ancora sopraggiungevano si accodavano ai lati della
strada. Tanta gente dentro e tanti soldi in cassa. Una notte buona
anche perché era molto buia e pioveva a dirotto: l'acqua veniva a
scrosci e il vento ci faceva da complice confondendo i nostri rumori
con i suoi gemiti. Era stata difficile la scelta dell'ora: le quattro
e mezzo. Non si poteva andare prima perché la discoteca aveva
chiuso alle tre e bisognava dar tempo a Bernardino di addormentarsi;
e non si poteva andare più tardi per non essere sorpresi dai primi
chiarori dell'alba. Bernardino era il padrone della discoteca:
padrone, gestore, dirigeva e stava alla cassa, faceva tutto lui e
alla fine i soldi se li portava in casa. Li chiudeva in un cassetto
della scrivania dello studio, al primo piano, sul retro della casa,
mentre lui dormiva con la moglie, giù, al pianterreno, sul davanti.
Era una cosa facile, sarebbe andata sicuramente a gonfie vele.
L'idea l'aveva avuta
Cosimo; gli era venuta un giorno che era salito allo studio per farsi
pagare un lavoro fatto all'impianto elettrico della discoteca.
«Bernardino tiene i
soldi nel cassetto di centro della scrivania» mi aveva detto poi,
con occhi lucidi di cupidigia, «divisi in pacchetti legati con
elastici: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila.
Tanti. Ma come mai non mi è venuto in mente prima: già tante volte
sono andato là a farmi pagare e ho sempre visto la medesima scena».
La descrizione era efficace: mi pareva di vedere tutti questi
pacchetti allineati dentro al cassetto, con i colori diversi.
«Come si fa ad
arrivarci?» gli avevo chiesto io deglutendo per l'emozione. Aveva
fatto un gesto secco con la mano a significare che era una cosa da
niente.
«A casa ho tanti
grimaldelli da aprire le porte del paradiso. Non dobbiamo avere paura
di una finestra e di un cassetto». E poi aveva spiegato che
bisognava scegliere una notte buia, magari di pioggia, e l'ora
giusta.
Quella notte dunque venne
ed era riempita di frastuoni da un temporale che sembrava studiato
apposta per noi. La villa di Bernardino era a cento metri dalla
discoteca ed entrambe erano isolate, vicino a una strada di scarso
traffico, e circondate dalla campagna. Per arrivarci dovevamo
attraversare i campi. E così facemmo. Raggiungemmo la cascina più
prossima e lì rubammo una lunga scala che era sotto un porticato. Ce
la caricammo in spalla prendendola alle due estremità, lui davanti e
io dietro. Era tanto buio che non riuscivo a distinguere Cosimo,
sentivo solo il frusciare dei suoi passi sull'erba e capivo quando
stava varcando un fosso o risalendo una proda dal movimento che
faceva la scala sulla mia spalla. La pioggia veniva a raffiche e, a
tratti, me la sentivo andar giù per il collo, dietro la nuca;
rabbrividivo, ma pensavo ai soldi di Bernardino, nel cassetto della
scrivania, divisi in tanti pacchetti.
A pochi passi dalla villa
ci fermammo ad ascoltare. Da una grondaia, probabilmente otturata,
l'acqua cadeva a terra con un fracasso disordinato; gli alberi,
tutt'attorno, sembravano bestie smaniose e sbuffanti. Posammo la
scala e ci accostammo per gli ultimi accordi. Cosimo sarebbe andato
su per primo per alzare il chiavistello delle imposte e il catenaccio
della finestra a vetri; poi, una volta entrato lui, sarei salito
anch'io a fargli luce con la lampada a pila mentre forzava la
serratura della scrivania. Mi sentivo i panni fradici sulle spalle,
chissà cosa avrebbe detto mia moglie l'indomani mattina scoprendo
che i miei abiti erano inzuppati; immaginavo già i suoi commenti:
«Hai giocato a carte tutta la notte in mezzo alla strada?» Adesso
l'importante era andare avanti e salire nello studio di Bernardino.
Facemmo tutto come
avevamo progettato, con calma, cercando di non fare rumore. Le
imposte si aprirono in pochi secondi e cigolarono lievemente; la
finestra resistette più a lungo ai ferri, infine si aprì anch'essa.
Cosimo fece schioccare due dita per segnalarmi che entrava, e infatti
sentii la scala alleggerirsi del suo peso. Allora andai su anch'io.
Come fui dentro riaccostai con cautela gli scuri e accesi la
lampadina tascabile. La scrivania era in un angolo dello studio,
volta verso il centro, con la sedia contro il muro. Cosimo sedette e
incominciò a lavorare con un grimaldello, la cui punta terminava a
becco. Muoveva la mano con una delicatezza che mi pareva impossibile
in lui, grande e massiccio; sembrava che stesse operando su qualcosa
di vivo e che dai suoi gesti dipendesse la vita o la morte. Io mi
figuravo che il cassetto si aprisse e nel cassetto ci fossero i
pacchetti dei soldi allineati. Pensavo ai soldi, ma pensavo anche a
Bernardino, mi voltavo ogni tanto a fissare il buio dalla parte della
porta. Se fosse entrato all'improvviso non avremmo fatto in tempo a
guadagnare la scala tutti e due, uno sarebbe rimasto bloccato. Allora
tenevo d'occhio oltre alla porta anche la finestra; il cassetto, la
porta e la finestra e ancora il cassetto, la porta e la finestra.
«Ma fai luce a modo»
sibilò Cosimo correggendomi la posizione della mano per centrare la
luce sul buco della serratura. Lavorò ancora per qualche minuto poi,
finalmente, si udì uno scatto e il cassetto si aprì. Vedemmo delle
carte bianche e gialle, che sembravano fatture, ma subito le
scostammo, le buttammo a terra per fare largo e vederci chiaro. E
infatti sotto le carte c'erano i soldi, proprio come Cosimo li aveva
descritti: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila, da
mille. Li vidi solo per un momento tanto fu svelto Cosimo a piantarci
le mani sopra e a infilarseli in tasca. Feci appena in tempo ad
agguantare un paio di pacchetti da cinquantamila.
«Poi si faranno i conti»
disse Cosimo, e intanto continuava a rimuovere carte per vedere se
sotto si nascondessero altri pacchetti. «Non c'è più niente»
disse, «vieni che andiamo».
«Ancora un momento»
dissi e allungavo la mano in fondo al cassetto. Non mi sapevo
rassegnare a scendere senza avere in tasca anch'io almeno un paio di
pacchetti da centomila come aveva Cosimo. Non che avessi paura di
irregolarità nella divisione, ma mi sembrava di essere da meno a non
riuscire ad agguantare quanto aveva beccato lui.
Un pacchetto lo sentii,
in fondo, a destra, legato con un elastico, come quello dei soldi.
«Non
fare il fesso» disse ancora Cosimo, mentre già stava presso la
finestra, «vieni, io scappo».
«Vai, vai» dissi, «ti
seguo subito». Scavalcò il davanzale e io, adagio, quasi volessi
assaporare la scoperta di altri denari, tirai fuori il pacchetto. Non
potei fare a meno di dare in una imprecazione: non erano soldi, erano
fogli di lettere, piegati in quattro e tenuti insieme dall'elastico.
La calligrafia era grande, pesante, mi sembrava di averla già vista.
Alzai il braccio e ricacciai giù, nel cassetto, con rabbia, il
plico. Ma intanto lessi: "...perché lui va ad Abano, ai
fanghi". Era una riga della prima lettera del pacchetto. Anch'io
ero stato ad Abano, ai fanghi, nel mese di ottobre. "Chi sarà
che è andato ai fanghi come me?" pensai e sfilai il foglio da
sotto l'elastico per leggere più oltre: "e così potremo
vederci comodamente a casa mia, senza tante paure" continuava lo
scritto. "Dovrai solo stare attento che non ti vedano quelli
della Ca' Bianca". Ma la Ca' Bianca era attigua a casa mia. "Per
Dio" pensai, "cosa dice questa lettera?"; e mi figurai
Bernardino che avanzava furtivamente verso casa mia, attento che non
lo vedessero quelli della Ca' Bianca.
Mi tremavano le mani. La
lampadina mi cadde dentro al cassetto, abbagliò di luce il plico,
ingigantì le parole della lettera che stava in cima: "...a
venerdì notte. Ti bacio tanto, tua Ilde". Sentii una vampata
di calore salirmi al viso e le gambe vacillarmi. Sedetti sulla sedia.
Ilde era mia moglie. Si chiamava Clotilde, e nessuno l'aveva mai
chiamata Ilde, eppure ero sicuro che era lei, perché lo capivo dalla
calligrafia e poi dalle altre cose, i fanghi di Abano e la Ca'
Bianca. Sentii venire dai campi un fischio sottile, lungo, delicato.
Era Cosimo che mi aspettava. Certo era arrabbiato perché tardavo e
rischiavo di farmi sorprendere. Ma non mi importava niente di correre
pericolo. Non avevo più paura di Bernardino. Guardavo la porta e mi
pareva che se fosse entrato in quel momento l'avrei affrontato a voce
alta, mostrandogli il pacchetto delle lettere. Con le mani sempre più
tremanti tirai via l'elastico, aprii i fogli, incominciai a scorrerli
fugacemente e con orgasmo.
Era proprio la Clotilde
quella che scriveva, non ci potevano essere dubbi, era un anno che
aveva una relazione con Bernardino. Gli scriveva le lettere quando
non si potevano mettere d'accordo a voce, o anche solo per dirgli
che gli voleva tanto bene e che senza di lui non sapeva come fare.
Non c'erano le buste, quindi non sapevo dove gliele indirizzava,
certo non a casa dove avrebbe potuto vederle sua moglie. Comunque, in
una maniera o nell'altra gliele faceva avere e gli diceva tutte
quelle smancerie che a me erano anni che non diceva più. Mi sentivo
le gambe vuote, sempre più vuote. Pensavo a tutto quel tempo che
avevo trascorso a fianco di Clotilde mentre lei amava il proprietario
della discoteca. Pensavo alla sua perversità e alla mia ingenuità,
alla mia pace perduta. Avrei voluto non essere mai venuto a rubare,
non avere trovato il plico delle lettere, non avere distrutto con le
mie mani la mia fiducia. Non avevo derubato lui, avevo derubato me.
Ma ormai era fatta, non c'erano più rimedi. Dovevo per forza portare
in me quel tormento.
Mi infilai in tasca il
plico delle lettere, spensi la lampadina, mi avviai alla finestra,
scavalcai il davanzale e incominciai a scendere. Mi incamminai
lentamente per i campi, sotto la pioggia sferzante, senza paura. Non
mi importava niente se Cosimo, ormai lontano, aveva in tasca i
pacchetti da centomila e ne faceva sparire una parte per derubarmi
nella spartizione. Sentivo nella tasca il grosso pacco delle lettere
e pensavo a quelle. Era un furto doloroso, ma prima o poi, in un modo
o nell'altro, dovevo pur conoscere la realtà, era mia, mi perveniva,
dovevo accettarla anche se mi costava tutto quello che avevo dentro
al petto: un'angoscia che mi pareva si identificasse con la notte che
mi stava intorno e le rabbiose folate del vento, gli schianti della
pioggia, l'arruffato lamento degli alberi.
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